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La violenza delle merci (Giorgio Nebbia)

In occasione del 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza, condividiamo questa riflessione sulla nonviolenza di Giorgio Nebbia, pubblicata su "Voci e volti della nonviolenza", n. 237 del 29 settembre 2008.

Il movimento nonviolento si è diffuso in Italia in un periodo straordinario di speranze e di delusioni: nei primi anni Sessanta del Novecento un grande movimento internazionale e popolare di protesta era riuscito a ottenere un trattato che vietava le esplosioni, nell'atmosfera e negli oceani, delle bombe nucleari che nei quindici anni precedenti avevano contaminato, con la loro ricaduta radioattiva, tutta la biosfera; un sollevamento dell'opinione pubblica e il libro di Rachel Carson, "Primavera  silenziosa" (del 1962), avevano denunciato l'avvelenamento del cibo e delle acque con pesticidi e sostanze tossiche.
I fumi dei camini industriali, le città congestionate dal traffico, i fiumi coperti di schiume, non erano più considerati i segni - o l'inevitabile prezzo - del "progresso".
La nonviolenza di Gandhi e Capitini appariva la bandiera di un movimento non soltanto per la pace e contro le armi, ma anche contro la violenza dei rapporti commerciali, delle merci, dell'inquinamento, delle centrali nucleari, della tecnica al servizio della morte, del lavoro che uccide. E così molti militanti della contestazione ecologica hanno riconosciuto nella nonviolenza una nuova efficace forma di lotta e il distintivo delle due mani che spezzano il fucile è apparso su molti maglioni di coloro che marciavano in difesa della natura e dell'ambiente.
E che ci sia bisogno di nonviolenza anche oggi dimostrano non soltanto le infinite guerre locali, spesso sobillate dalle grandi potenze per la conquista delle materie prime - del petrolio nel Medio Oriente e in Angola, del rame in Cile, del cromo e cobalto nel Congo, dei fosfati nel territorio del popolo Sarawi, eccetera - ma anche il crescente degrado ambientale, figlio della violenza implicita nella conquista dei mercati, dei profitti, nella lotta per vincere la concorrenza.

Coloro che si sono rallegrati per le prospettive del crollo del comunismo nei paesi ex-socialisti, si trovano di fronte a 1.500 milioni (ci metto dentro anche i cinesi) di persone scatenate anche loro nella corsa ai consumi, ai profitti, alla volontà di tenersi ben strette le bombe nucleari, di devastare il territorio e l'ambiente come se questo fosse l'inevitabile frutto delle delizie dell'albero del "mercato".
Sono queste delizie che assicurano una crescente povertà e disoccupazione nelle classi povere dei paesi ricchi, una crescente povertà nei paesi poveri, una crescente tensione fra ricchi e fra poveri, un peggioramento della qualità dell'aria, delle acque, del mare.
"Mercato", nel corrente significato della parola, significa aumento della ricchezza di una minoranza attraverso l'imposizione di modelli violenti di comportamento e di consumi, garantiti dall'aspirazione al possesso di crescenti quantità di merci. La società del "mercato" deve convincere i "consumatori" che si esiste, si è visibili, soltanto possedendo più merci, dai mezzi di trasporto, a indumenti e modi di alimentazione, da strumenti di comunicazione sempre più sofisticati: la pubblicità e soprattutto la televisione sono i veicoli efficacissimi di questo modello di violenza. La violenza intrinseca nelle merci e negli oggetti offerti da questo "mercato" impone qualsiasi sacrificio umano per il loro possesso. Il lavoro, che una volta era liberazione dalla povertà propria e solidarietà e collaborazione con altri, ha per solo fine il possesso del denaro.
Carlo Marx, nel terzo dei "Manoscritti" giovanili del 1844, quel piccolo scritto, tradotto in italiano da Norberto Bobbio, scriveva che "nell'ambito della proprietà privata ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile", il mondo, appunto, delle merci, degli "oggetti".

Se il crescente possesso degli oggetti è la fonte della violenza contro altri esseri umani, contro i paesi che possiedono nel loro territorio risorse naturali, economiche e materie prime, contro gli altri esseri viventi, vegetali e animali, e contro la natura inanimata: aria, fiumi, mare - allora fra gli impegni della nonviolenza va ben compreso il cambiamento del rapporto fra gli esseri umani e le cose materiali.
I punti di lotta - se ne trovano infinite testimonianze negli scritti della nonviolenza - sono una revisione critica dei nostri modi di produzione, la contestazione (una vera obiezione di coscienza) della società dei consumi, la proposta di nuovi modi di vita per noi, abitanti del Nord del mondo, e per i nostri fratelli del Sud del mondo, la lotta contro la struttura militare-industriale, la più alta espressione della violenza e dello spreco.
Si tratta di trovare nuovi indicatori del valore, capaci di riconoscere che valgono di più gli oggetti e le merci che, a parità di servizio umano offerto, consumano meno energia e meno risorse naturali, inquinano meno e durano di più, hanno un maggiore contenuto di lavoro umano; capaci di distinguere gli oggetti e i servizi che sono essenziali e prioritari da quelli che sono semplici occasioni di spreco ed hanno un maggiore "contenuto" di violenza. Nuove scale di valori che impongono la riscrittura dell'economia politica.