In occasione del 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza, condividiamo questa riflessione sulla nonviolenza di Enzo Mazzi, pubblicata su "Voci e volti della nonviolenza", n. 237 del 29 settembre 2008.
Ormai si sta diffondendo più velocemente di quanto non si creda la convinzione che la crisi senza sbocco dell'attuale "ordine mondiale" rende ingovernabile e irrazionale il sistema basato sulla violenza e sulla guerra.
L'utopia della nonviolenza ha percorso i millenni ma sempre relegata nell'iperuranio dei profeti e delle anime belle. Non c'era scampo: la sopravvivenza della specie chiedeva la gestione della violenza attraverso il sacrificio e la guerra. E infatti lo stesso cristianesimo, nato come complessa e coerente esperienza di nonviolenza, alternativa alla cultura del Tempio, del sacrificio, della guerra, nell'affermarsi e per affermarsi come religione dell'Impero ha dovuto tornare a far propria la cultura del sacrificio e della guerra.
La società umana, fino da tempi remotissimi, qualcuno dice dal neolitico, è organizzata in funzione del sacrificio e della guerra.
Ce lo dicono gli studiosi dei popoli cosiddetti primitivi. Ce lo dicono ugualmente gli studiosi delle società evolute. Tanto che Hegel come si sa considerava la guerra come il massimo momento espressivo dello Stato. La cultura della guerra è sistemica. Pervade cioè tutti gli aspetti del convivere. E non solo quelli di cui siamo consapevoli. Penetra il nostro profondo, le regioni dell'inconscio, sia l'inconscio individuale sia sociale. Questa è stata considerata fino al secolo scorso l'unica razionalità possibile.
Ma oggi?
Dilaga, sempre meno di quanto la nostra impazienza vorrebbe, la consapevolezza che la vera razionalità non è più la guerra ma è proprio la nonviolenza. Lo dice la "lotta quotidiana mondiale per la trasformazione". Lo dicono anche tanti intellettuali che a modo loro riflettono su quella lotta.
Solo a titolo di esempio riporto il pensiero di Hannah Arendt.
Ne La disobbedienza civile, citata da Giuseppe Bronzini nella recente pubblicazione I diritti del popolo-mondo, scrive che la violenza e il potere non coincidono più, anzi tendono a escludersi. E intende chiaramente il potere come razionalità e legittimità. La capacità di incenerire il mondo intero non corrisponde più agli scopi di razionalità per i quali il sistema della violenza-sacrificio-guerra è nato. Occorre creare nuove istituzioni, un nuova legittimazione per il potere, un nuova razionalità o se si vuole un nuovo ordine sociale e politico, e per far questo non c'è che il metodo nonviolento. La violenza - dice ancora la profuga ebrea - è paradossalmente più coerente con una politica riformista che mira a obbiettivi immediati, piuttosto che con una politica trasformatrice globale.
La mia conclusione è che la nonviolenza, o la pace se si vuole usare questa parola come equivalente di nonviolenza, in modo speculare alla guerra, è una cultura e non solo un evento, è un sistema complessivo di organizzazione della società. La transizione dalla cultura di guerra alla cultura di pace è dunque un processo rivoluzionario. Investe tutti campi del convivere, non solo quelli economici e politici ma anche quelli simbolici. Investe l'arte, le religioni, il mondo del sacro.
Il dominio del sacro è una delle più insidiose e distruttive radici della violenza. L'esodo dal sacro necessita di un lavoro su noi stessi, sul nostro profondo, oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l'inconscio si apre all'ignoto.
Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Sul crinale di quei silenzi che dotti e maestri ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, razionalità senza mistero. La rivoluzione della pace necessita di un lavoro per far emergere e sanare traumi che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell'anima, per passare dalla perdita inconsapevole e dall'angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza.
Le comunità di base, che sono il mio riferimento, sono significative esperienze di nonviolenza attiva. E l'essenziale di tali esperienze mi sembra che si possa sintetizzare in questo: è possibile penetrare nel "sancta sanctorum", invaderlo, senza essere annientati.
Il sacro può realisticamente e concretamente essere sottratto alla mediazione del potere della casta e del Tempio e riportato nella vita. Torna attuale la scommessa della straordinaria esperienza di cui Gesù fu animatore: è possibile nelle condizioni storiche attuali un nuovo incontro col mistero e col sacro, che testimoni e riveli la sacralità di tutto il creato e di ogni donna e uomo senza più bisogno della separatezza del sacro e della sua gestione da parte della casta.
Il sacro può tornare a costituire l'alternativa rispetto alla cultura dominante e la riserva di criticità rispetto a tutte le sacralizzazioni delle nostre provvisorietà. E infine il conflitto, imposto da ogni potere sacro o profano che si vede denudato e desacralizzato, può essere gestito in forma positiva e creativa. Anche oggi, proprio oggi, la morte può essere rovesciata in resurrezione.
Dopo il Concilio non si sono fatti molti passi avanti, c'è stata un'involuzione. Chiuse quasi tutte le strade per una riforma della Chiesa in senso teologico e strutturale, si è cercato di passare per l'unico percorso possibile: le fessure di carattere sociale-politico-attivistico pastorale.
Ma in questo modo la società è stata privata di un contributo importante per immaginare e costruire un "mondo nuovo".
L'autoritarismo, il verticalismo, l'individualismo, il liberismo, l'imperialismo, con tutte le conseguenze disastrose, fame, ingiustizie, guerre, trovano un loro radice profonda negli assetti interni delle Chiese cristiane e nella stessa sistematizzazione della fede cristiana.
Ora che "un mondo nuovo" è tornato negli orizzonti e nei percorsi delle nuove generazioni si può far mancare il contributo della ricerca di "mondi religiosi ed ecclesiali nuovi"?
O meglio, è possibile un mondo nonviolento senza lavorare anche per mondi religiosi ed ecclesiali intimamente e strutturalmente nonviolenti?
La società umana, fino da tempi remotissimi, qualcuno dice dal neolitico, è organizzata in funzione del sacrificio e della guerra.
Ce lo dicono gli studiosi dei popoli cosiddetti primitivi. Ce lo dicono ugualmente gli studiosi delle società evolute. Tanto che Hegel come si sa considerava la guerra come il massimo momento espressivo dello Stato. La cultura della guerra è sistemica. Pervade cioè tutti gli aspetti del convivere. E non solo quelli di cui siamo consapevoli. Penetra il nostro profondo, le regioni dell'inconscio, sia l'inconscio individuale sia sociale. Questa è stata considerata fino al secolo scorso l'unica razionalità possibile.
Ma oggi?
Dilaga, sempre meno di quanto la nostra impazienza vorrebbe, la consapevolezza che la vera razionalità non è più la guerra ma è proprio la nonviolenza. Lo dice la "lotta quotidiana mondiale per la trasformazione". Lo dicono anche tanti intellettuali che a modo loro riflettono su quella lotta.
Solo a titolo di esempio riporto il pensiero di Hannah Arendt.
Ne La disobbedienza civile, citata da Giuseppe Bronzini nella recente pubblicazione I diritti del popolo-mondo, scrive che la violenza e il potere non coincidono più, anzi tendono a escludersi. E intende chiaramente il potere come razionalità e legittimità. La capacità di incenerire il mondo intero non corrisponde più agli scopi di razionalità per i quali il sistema della violenza-sacrificio-guerra è nato. Occorre creare nuove istituzioni, un nuova legittimazione per il potere, un nuova razionalità o se si vuole un nuovo ordine sociale e politico, e per far questo non c'è che il metodo nonviolento. La violenza - dice ancora la profuga ebrea - è paradossalmente più coerente con una politica riformista che mira a obbiettivi immediati, piuttosto che con una politica trasformatrice globale.
La mia conclusione è che la nonviolenza, o la pace se si vuole usare questa parola come equivalente di nonviolenza, in modo speculare alla guerra, è una cultura e non solo un evento, è un sistema complessivo di organizzazione della società. La transizione dalla cultura di guerra alla cultura di pace è dunque un processo rivoluzionario. Investe tutti campi del convivere, non solo quelli economici e politici ma anche quelli simbolici. Investe l'arte, le religioni, il mondo del sacro.
Il dominio del sacro è una delle più insidiose e distruttive radici della violenza. L'esodo dal sacro necessita di un lavoro su noi stessi, sul nostro profondo, oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l'inconscio si apre all'ignoto.
Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Sul crinale di quei silenzi che dotti e maestri ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, razionalità senza mistero. La rivoluzione della pace necessita di un lavoro per far emergere e sanare traumi che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell'anima, per passare dalla perdita inconsapevole e dall'angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza.
Le comunità di base, che sono il mio riferimento, sono significative esperienze di nonviolenza attiva. E l'essenziale di tali esperienze mi sembra che si possa sintetizzare in questo: è possibile penetrare nel "sancta sanctorum", invaderlo, senza essere annientati.
Il sacro può realisticamente e concretamente essere sottratto alla mediazione del potere della casta e del Tempio e riportato nella vita. Torna attuale la scommessa della straordinaria esperienza di cui Gesù fu animatore: è possibile nelle condizioni storiche attuali un nuovo incontro col mistero e col sacro, che testimoni e riveli la sacralità di tutto il creato e di ogni donna e uomo senza più bisogno della separatezza del sacro e della sua gestione da parte della casta.
Il sacro può tornare a costituire l'alternativa rispetto alla cultura dominante e la riserva di criticità rispetto a tutte le sacralizzazioni delle nostre provvisorietà. E infine il conflitto, imposto da ogni potere sacro o profano che si vede denudato e desacralizzato, può essere gestito in forma positiva e creativa. Anche oggi, proprio oggi, la morte può essere rovesciata in resurrezione.
Dopo il Concilio non si sono fatti molti passi avanti, c'è stata un'involuzione. Chiuse quasi tutte le strade per una riforma della Chiesa in senso teologico e strutturale, si è cercato di passare per l'unico percorso possibile: le fessure di carattere sociale-politico-attivistico pastorale.
Ma in questo modo la società è stata privata di un contributo importante per immaginare e costruire un "mondo nuovo".
L'autoritarismo, il verticalismo, l'individualismo, il liberismo, l'imperialismo, con tutte le conseguenze disastrose, fame, ingiustizie, guerre, trovano un loro radice profonda negli assetti interni delle Chiese cristiane e nella stessa sistematizzazione della fede cristiana.
Ora che "un mondo nuovo" è tornato negli orizzonti e nei percorsi delle nuove generazioni si può far mancare il contributo della ricerca di "mondi religiosi ed ecclesiali nuovi"?
O meglio, è possibile un mondo nonviolento senza lavorare anche per mondi religiosi ed ecclesiali intimamente e strutturalmente nonviolenti?