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Mistificazioni

Una società complessa richiederebbe la capacità, da parte di tutti, sopratutto delle forze politiche, di non cercare semplificazioni e scorciatoie, ma di stare dentro i problemi e le contraddizioni valutando, con serenità, il quadro complessivo, in modo da trovare le strade adeguate per mettere in campo soluzioni.

La strada della "semplificazione della complessità" porta inesorabilmente alla "banalità", ma, soprattutto, al non riuscire più ad ascoltare le ragioni dell'altro, a tentare, almeno per un istante, a osservare il proprio punto di vista con un barlume di dubbio.

Uno di questi aspetti riguarda il dibattito sulla guerra e la violenza, spesso chiuso, con la consueta brutalità e volgarità, dentro i consueti stereotipi della guerra inevitabile e della inesorabile ineluttanza dell'uso della violenza per garantire la democrazia, che diventano inesorabilmente forme di mistificazione di una riflessione che avrebbe bisogno invece di sempre maggiori approfondimenti.

Non si discosta da questo l'intervento del politologo Edward Luttwak e del ministro Ignazio La Russa nella trasmissione Annozero del 15 aprile u.s.

Premessa

E' possibile tentare un ragionamento pacato sulla guerra e la violenza, senza scivolare nella retorica e nella volgarità, ed anche senza barricarsi dietro a facili parole ideologiche, facendo anche lo sforzo di evitare alcuni assolutismi della nonviolenza?

Sicuramente è necessario però trovare un minimo di uniformità di vocabolario, per evitare fraintendimenti.

Un primo chiarimento riguarda la nonviolenza, troppo spesso relegata semplicemente nella sfera dei buoni propositi, delle testimonianze individuali, dei percorsi di fede.

La nonviolenza è una cultura altra di stare dentro i conflitti, con i suoi contenuti di lotta e di interazione: in una logica “collettiva”, “di massa”, che è proprio l'antitesi a quella cultura che la vuole relegare semplicemente nell'ambito personale e spirituale.

Una seconda premessa indispensabile riguarda il concetto di "democrazia", che non può essere relegato al semplice svolgimento di elezioni o scelte di gruppi dirigenti.

Le modalità di svolgimento del voto sono un aspetto di un insieme di valori e di scelte che vanno oltre la nazione, che chiedono il rispetto dei diritti umani sia per i propri cittadini che per gli altri popoli.

Democrazia è capacità di ascolto delle ragioni dell'altro, non demonizzazione o criminalizzazione dell'avversario... questo si traduce in una costituzione di modello sociale, ma anche nel sistema di relazioni con gli altri uomini, tra paesi e culture diverse.

Dopo la seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale rappresenta un punto di discrimine fondamentale anche all'interno della stessa cultura militare per diversi aspetti: le proporzioni del conflitto, l'introduzione del nucleare per risolverlo ed infine il numero di vittime civili che per la prima volta è stato superiore a quello dei militari.

Se, ovviamente, anche nei conflitti dei millenni precedenti vi erano vittime civili, va osservato come vi era una cultura e impostazione del conflitto che tentava di fare scontrare tra loro gli eserciti.

Con la seconda guerra mondiale ed in tutti i moltissimi conflitti che da allora si sono verificati la maggioranza delle vittime sono civili: donne, bambini e anziani.

Una mistificazione sta nella giustificazione... tutto ciò accadrebbe per errore o a causa di effetti collaterali.

Ritengo invece, ma una riflessione in tal senso sarebbe quanto mai utile, che sia proprio cambiato radicalmente il concetto di imporre la propria forza, che si esprime terrorizzando e annientando le popolazioni civili, per dimostrare la propria potenza davanti a tutto, salvo poi giustificare gli atti come effetti collaterali.

D'altro le stesse bombe di Hiroshima e Nagasaki non sono state altro che una manifestazione tremenda di potenza esercitata consapevolmente sulle popolazioni civili.

Quel conflitto si stava esaurendo, ma era necessario rendere palese, con quel sacrificio inutile di vite umani, chi era la potenza dominate e quale strumento di distruzione avesse.

Da allora questo esercizio della forza si è amplificato, al punto che, paradossalmente, anche la cultura delle forze del terrorismo è tremendamente in sintonia con questa logica militare e di potenza, oserei dire che hanno la stessa origine.

La manifestazione della propria potenza di fuoco esercitata nei confronti della società civile, per demoralizzarla, per terrorizzarla.

La popolazione civile non è vittima di errori... ma è l'obiettivo dell'esercizio della violenza organizzata.

Questo accade in Cecenia, in Iraq, in Afghanistan, in Congo... l'esercizio della violenza finalizzato a fiaccare e umiliare il nemico, facendogli terra bruciata intorno.

Ma questa cultura l'abbiamo amplificata fino ad accettare l'introduzione di forme di tortura legalizzate proprio in occasione degli ultimi conflitti.

Tutto ciò ci viene presentato, abitualmente, come inevitabile, come cose sempre avvenute... come se all'orrore non ci sia alternativa.

L'alternativa esiste, ma significa ridefinire i nostri sistemi sociali e politici.

Sicuramente le cause di questa trasformazione “culturale” sono molteplice, incluso il modificarsi del tessuto sociale e urbano. Ma non per questo non possiamo non interrogarci se è possibile praticare delle strade altre rispetto a quelle battute fino ad adesso e imposte dai poteri forti

Efficacia della guerra

Si rende necessaria una lettura storica e politica di tutti i conflitti che si sono susseguiti dopo la seconda guerra mondiale: Vietnam, Cambogia, Corea, gli sconosciuti e tremendi conflitti in Africa, le guerre in Iraq, le guerre in Afghanistan (Russi e poi occidente), i conflitti arabo - israeliani, il problema palestinese, la questione curda, il genocidio in Cecenia...

Cosa hanno risolto quei conflitti, alcuni dei quali dentro la logica della guerra fredda, altri in un contesto di relazioni internazionali avanzato?

Non esiste conflitto che sia riuscito a risolvere alcune situazioni senza portarsi con sé un carico pesante di situazioni di violenza, che ha paralizzato la costruzione di relazioni diverse.

Pensiamo ad Israele, una delle macchine da guerra più potenti del mondo, vive in stato di guerra permanente dalla sua fondazione, in una sorta di fortino assediato che deve continuamente difendersi, attaccando.

Quante energie e vite umane spese inutilmente? Ha un senso tutto questo? Si può parlare di democrazia importante nel medio oriente, quando, oltre il pluralismo e il voto libero, esiste un'accettazione della violazione dei diritti umani degli altri?

Ma questo ragionamento si estende a tutti: il Vietnam del Nord e del Sud sono sempre in uno stato di “criticità” permanente, così come le Coree.

In Iraq nessuna pacificazione interna esiste, ed il governo in carica resiste solo grazie alla presenza delle forze occidentali.

In Afghanistan, dopo quasi nove anni di guerra (ben oltre quelli che sono stati necessari per sconfiggere la macchina da guerra nazista) la situazione è la stessa, parte dei territori in mano ai Talebani, i signori della guerra che continuano a dominare, scegliendo di volta in volta il campo con cui schierarsi.

Forse nell'interrogarsi sull'efficacia delle guerre si rende necessario riportare al memoria le motivazioni che le hanno generate.

Israele cercava sicurezza rispetto all'aggressività di stati vicini, che da decenni hanno perso quel carattere bellico di un tempo. Non ha trovato nessuna sicurezza, tanto da sentirsi minacciato da “razzetti” sparati da alcune zone palestinesi.

Tuttavia per mostrare la propria potenza deve schiacciare ogni forma di diritto umano nei confronti dei palestinesi, esasperando la situazione, visto che sicuramente non può praticare “una soluzione finale”.

In Afghanistan gli USA hanno trascinato le nazioni occidentali dopo l'attacco tremendo delle Torri Gemelle, non perché i Talebani fossero gli ideatori di quell'attentato, semplicemente perché tolleravano la presenza dei leader di Al-Quaida (anzi poi si è scoperto che il commando proveniva dall'Arabia Saudita, nazione alleata che non poteva certo essere attaccata).

L'Iraq stato invaso con il falso pretesto che quel regime fosse in possesso di armi di distruzione di massa, notizia rivelatasi priva di fondamento... e per cui è stato modificato l'obiettivo sostenendo che era necessario liberare quel popolo da un odioso tiranno.

Se si tentasse uno sforzo di analisi con un barlume di lucidità, forse emergerebbe, senza essere teorici della nonviolenza, che quello strumento non ha risolto problemi, spesso li ha esasperati, ed in altre situazioni impone una militarizzazione del paese.

Laddove invece, dopo essere passati dalla lotta armata, si è approdati ad altre forme di lotta, si è avviato un percorso, faticoso, lungo, in cui la convivenza tra diversità sta crescendo. Pensiamo al conflitto in Irlanda, al Sud Africa, ad alcuni cambiamenti profondi in alcuni governi del centro America...

Il punto quindi non è affermare semplicemente un principio, ma, preso atto che lo strumento guerra ha dimostrato, quanto meno dopo la seconda guerra mondiale, la sua inefficacia, interrogarsi su altre forme per affrontare le situazioni di crisi.

Un'alternativa alla scelta militare è la nonviolenza, ma colta non semplicemente nella sua dimensione etica, ma come opzione per costruire un sistema di relazioni altre anche tra i popoli, quindi come scelta che richiede la consapevolezza

Una cultura che inevitabilmente ha una sua ricaduta nella politica estera ed in quella interna, incluso il rivedere il rapporto con i poteri e le lobby dominanti.

Ad esempio l'attuale cultura di assedio che caratterizza molti dei paesi occidentali si traduce, per quanto concerne le politiche interne sull'immigrazione, in precise norme di chiusura e di violazione dei più comuni diritti umani.

Una cultura altra delle relazioni internazionali e del porre in atto politiche diverse per la risoluzione dei conflitti, richiederebbe un approccio diverso al fenomeno migratorio.

La disinformazione di guerra

Il rapporto tra media e guerra è cambiato profondamente. Negli ultimi conflitti (Cecenia, Iraq, Afghanistan, Gaza...) abbiamo assistito, ad esempio, ad una espulsione dei mezzi di informazione alternativi, per cui tutte le notizie e le immagini provenivano da fonte militare.

Per giustificare il conflitto iracheno abbiamo assistito ad una costruzione mediatica quanto mai significativa, per cui era ovvio per tutti che l'Iraq fosse in possesso di armi di distruzioni di massa, invece inesistenti.

Il dubbio che un'analogia si stia verificando con l'uranio dell'Iran credo abbia un barlume di senso ancora.

Dell'utilizzo di Israele di armi non convenzionali (al fosforo) nei confronti della popolazione civile di Gaza abbiamo potuto averne conferma solo nei mesi successivi al massacro, perché i media devono essere tenuti lontani dalle zone di conflitto.

Ma anche qui in Italia l'informazione su quelle che formalmente vengono chiamate missioni di pace di che tipo è, se non è possibile discutere sulla loro efficacia ed efficienza, e tanto meno sul fatto che esse abbiano un senso, e non siano una violazione dell'art. 11 della Costituzione.

Discutere di questo diventa un attacco di lesa maestà (la reazione di la Russa nel dibattito ad Annozero è significativa).

Di una precisa volontà a controllare le informazione che provengo dalle zone di guerra ne è il tragico assassinio delle giornalista russe Anna Politkovskaya, che ha denunciato i massacri russi in Cecenia, e Natalia Estemirova, attivista dei diritti umani.

E' bene evidente la causa di tutto ciò è tenere nascosto all'opinione pubblica quello che veramente accade in quelle zone, permettendo che vengano filtrate solo le informazioni "accettabili" e "tollerbaili".

Tutto ciò è un'esplicita limitazione del potere democratico, che senza una informazione libera non può trovare alimento, ed esprime chiaramente l'inadeguatezza dello strumento limitare per costruire una credibilità internazionale.

L'occidente non può dichiararsi paladino della democrazia, quando la teme nelle situazioni di conflitto e di crisi... quando non è in grado di aprire un dibattito sugli strumenti adottati per risolverle.

Una piena democrazia lo è sempre e, sopratutto, mantiene connotatio e costrutti anche nei confronti delle relazioni internazionali.

Possiamo incoraggiare la lotta di un popolo per liberarsi dall'oppressione, ma non possiamo sostituirci a quel popolo nel costruire il sistema democratico... l'Iraq, l'Afghanista testimoniano questo, con la consapevolezza che le democrazie sono una pluralità di esperienze e che, sopratutto, sono un cammino costante di un popolo, che non può mai darsi per terminato.

Forse il problema per noi occidentali è che abbiamo dato per acquisito e concluso il cammino di costruzione della democrazia, ingessandolo in quello che abbiamo ottenuto.

Non ha caso temiamo ogni forma di democrazia allargata, di estenzione dei diritti di cittadinanza e dei diritti umani.

Vivere nel fortino assediato

Cosa ha ottenuto la politica e l'aggressività israeliana, se non quella di garantirsi una sopravvivenza dentro ad un sistema sotto assedio, in una militarizzazione permanente.

In Cecenia, ammesso che la Russia sia in grado di farlo, solo mantenendo uno stato di militarizzazione estrema della regione ed una continua e sistematica violazione degli elementari diritti umani è possibile garantire lo status quo.

Le guerre in Iraq ed Iran hanno solo prodotto instabilità nella regione, governi deboli.

In ogni caso le politiche adottate dall'occidente in questo dopoguerra hanno aumentato le distanze tra culture diverse, amplificando le diffidenze e la non-credibilità.

Si rende necessaria una riflessione in tal senso, per evitare di continuare a perseguire politiche suicide, semplicemente sorrette dai poteri forti, dell'industria energetica, dell'industria degli armamenti, che sono i principali beneficiari di questo stato di cose.

Rimettere mano al “multilateralismo” significa assumerlo nella sua interezza, riconoscendo la pari dignità di tutti i soggetti in campo e, soprattutto, individuare la necessità di un “governo mondiale democratico” per la risoluzione delle crisi del pianeta (umanitarie, naturali, di conflitto....).

Sicuramente questo è, in qualche modo, una riduzione della sovranità degli stati, ma indispensabile se non vogliamo perseguire la strada della militarizzazione della nostra società.

In tale ottica la nonviolenza assunta come pratica politica e di governo, e non semplicemente relegata nell'altare degli alti ideali irraggiungibili, può essere la scelta determinante nella costruzione di un sistema di relazioni internazionali, sociali, economiche e culturali altro, fondato sul rispetto reciproco, la multilateralità, la giustizia e, sopratutto, l'amplificazione dei sistemi democratici nelle relazioni politiche, sociali ed economiche.

Si rende necessario un radicale cambiamento di rotta... ma forse questa necessità diventa ancora più forte se andiamo a leggere i danni finora fatti dalle politiche di aggressione, di sopraffazione e di imposizione dei propri modelli (politici, economici, culturali, sociali...).

Documentazione:

Rete dei corpi civili di pace

Corpi civili di pace (Unimondo)

Prendere in mano il proprio futuro: Superare il conflitto lavorando su problemi comuni (progetto Kossovo presentato dall'associazione APS IPRI Rete CCP (Italian Peace Research Institute e Corpi Civili

Corpo Civile di Pace Europeo nella visione di Alexander Langer e Ernst Gulcher

Come realizzare i Corpi Civili di Pace - Maria Carla Biavati, Istituto di Ricerca per la Pace – Rete

Lettera collettiva a Giovanardi – Antonino Drago, Alberto L’Abate, Giovanni Salio

Seminario Nazionale del Tavolo “Interventi Civili di Pace” (ICP) – Gianmarco Pisa