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Una proposta politica nonviolenta (Nanni Salio)

Tratto da "La nonviolenza è in cammino" - n. 1179 di mercoledì 18 gennaio 2006, il testo è stato estratto dalla registrazione dell'intervento di Nanni Salio al convegno su "Come intervenire nella realtà per superare i conflitti e costruire percorsi di pace. La ricerca e la metodologia della nonviolenza si confrontano con la politica", svoltosi a Pontedera il 14 maggio 2005, i cui atti sono in corso di pubblicazione a cura del Centro per la Pace di Pontedera.
La necessità di un progetto politico di pace interroga forze politiche e movimenti. Una riflessione a tutto campo partendo proprio dai limiti mostrati dalla classe politica in Kosovo
I. Relazione
Cominciamo da una osservazione preliminare, di carattere generale, che prende spunto dal titolo stesso del nostro incontro. Non si tratta di "superare i conflitti", ma di imparare a trasformarli creativamente e costruttivamente con i metodi della nonviolenza. Il conflitto è una condizione specifica della natura umana, individuale e sociale. Nell'ambito della ricerca per la pace non si attribuisce un significato negativo al termine conflitto: non è sinonimo nè di violenza nè di guerra, ma un rischio e un'opportunità che devono essere gestiti e trasformati positivamente. A partire da queste precisazioni, proponiamo un confronto che non è tanto con la politica in astratto, quanto con uomini e donne che hanno compiti e responsabilità specifiche nell'ambito della politica istituzionale.
Cosa vuol dire trasformare i conflitti con il metodo della nonviolenza? Dobbiamo tutti quanti intraprendere un percorso di alfabetizzazione se vogliamo acquisire competenze che ci permettano di confrontarci concretamente su questo tema. Osserviamo infatti che normalmente i nostri rappresentanti politici pensano che la modalità prevalente per affrontare i conflitti sia l'uso dello strumento militare. Anche quando si spingono sino a invocare il dialogo, lo fanno in modo retorico. In realtà, in tempo di pace essi preparano solo ed esclusivamente lo strumento militare, che prima o poi viene impiegato nel fare la guerra. Se vogliamo uscire dalle ambiguità, dobbiamo quindi rivolgere all'intera classe politica la seguente domanda: "Siete intenzionati o meno a realizzare concretamente le condizioni perché in tempo di pace si costruiscano delle alternative che rendano possibile l'intervento di prevenzione della guerra, di interposizione nel caso in cui essa comunque esploda e di riconciliazione quando sia finita?".
In altre parole ancora: "Volete abbandonare la logica del 'si vis pacem para bellum' e imboccare la strada opposta: 'se vuoi la pace prepara la pacè?" Questa è una domanda previa, alla quale ci aspettiamo venga data una risposta positiva che comporti un impegno concreto per affrontare la questione anche in termini economici.
Quasi quindici anni fa, a partire dal 1991-1992, alcuni gruppi di base avviarono una campagna internazionale "Per la prevenzione della guerra in Kosovo". Essa operò, anche con qualche parziale successo, nella quasi totale indifferenza e ignoranza della classe politica: una ignoranza tanto abissale quanto funesta. Quando infatti si giunse al 1998, dopo le recrudescenze della guerra tra governo serbo e Uck, quel che fu fatto lo sappiamo: ci fu un intervento esclusivamente militare, promosso dalla Nato, con giustificazioni del tutto infondate. Oggi la situazione è sempre tesa, sull'orlo perenne della guerra, ma ancora una volta nessuno di coloro che caldeggiarono l'intervento militare se ne preoccupa più di tanto (per un aggiornamento si veda la serie di articoli "ex-Yugoslavia-Kosovo" nel sito: Trasnational.org). La violenza ha prodotto altra violenza e la guerra non ha risolto nessun problema.

Non possiamo limitarci a fare della retorica su questi temi, ma dobbiamo concretamente avviare un progetto di vera e propria "transizione" dallo strumento militare, prevalentemente offensivo, ad altri strumenti di intervento che siano, almeno in un primo momento, anche misti, ovvero militari e civili, ma esclusivamente difensivi.
Non siamo infatti in grado di abolire da un giorno all'altro l'intero, mastodontico, complesso militare-industriale costruito nel corso degli anni, ma possiamo innescare un processo di riconversione, progettabile in tempi concreti e ragionevoli.
Per limitarci a un solo esempio, osserviamo che il lavoro dei Corpi Civili di Pace italiani e internazionali è stato avviato da oltre vent'anni, con risultati a dir poco sorprendenti, esclusivamente dal basso, con modestissime risorse senza alcun appoggio istituzionale. Basti pensare ai molteplici gruppi dalle Pbi (Peace Brigades International), che sono intervenuti con successo in Guatemala, e oggi sono presenti nello Sri Lanka e in Colombia, un paese dilaniato da una endemica guerra civile dove ciononostante è sorta l'importante esperienza delle Comunità di pace, di cui quella di San Josè de Apartadò è la più nota. Oppure, si pensi alla straordinaria esperienza delle Donne in nero, presenti nelle principali aree di guerra, dai Balcani al Medio Oriente, in Israele-Palestina, per limitarci ai casi più noti.

Una seconda riflessione, anch'essa di ordine generale, riguarda il grande arcipelago dei movimenti per la pace considerato nel suo insieme. Se da un lato esso ha realizzato una ricchissima molteplicità di iniziative, grandi e piccole, dall'altro non ha saputo finora elaborare una piattaforma politica congiunta. Questo è un grosso limite. Ci sono ovviamente molte proposte, forse persino troppe, ma non sono assunte in modo unitario e coerente da quell'insieme variegato di gruppi che costituiscono il cosiddetto movimento per la pace. Non esiste sinora un vero e proprio progetto politico su cui far convergere tutte le nostre modeste energie. Si assiste invece a una dispersione di iniziative, che non riescono a creare in tempi ragionevoli quella "massa critica" necessaria per far breccia nel muro di gomma della politica.

Infine intendo sottolineare un terzo e ultimo aspetto: il nostro ruolo non può limitarsi a quello dei pompieri che intervengono solo quando il fuoco è stato appiccato. Certamente anche questa funzione è importante, ma dobbiamo renderci conto che alla radice dei processi che portano alle guerre ci sono cause molto evidenti, che oggi sono ancor più manifeste che in passato.
Una delle prime e più importanti è il ben noto complesso militare-industriale-scientifico-corporativo, così chiamato perché è una rete di interessi che comprende molteplici soggetti. Esso è particolarmente potente e ramificato negli Usa, ma possiede una notevole influenza anche nel nostro Paese. Fu nientemeno che il presidente Eisenhower a denunciare sin dagli anni '60 del secolo scorso, il pericolo crescente che tale complesso comportava per la democrazia. Oggi è sotto gli occhi di tutti che cosa è successo: propaganda, complotti, bugie, promozione della guerra, colpi di stato, violazione delle leggi internazionali, torture, massacri, sono all'ordine del giorno di questa mostruosa struttura. Ma c'è, anche in casa nostra, anche nella cosiddetta sinistra, chi ritiene che si debba sostenere e rilanciare l'industria bellica, invece che riconvertirla, e aumentare ancora la spesa militare perché "negli ultimi anni... per la difesa si è speso poco e alla difesa si è chiesto molto" (si veda l'intervento di Marco Minniti al convegno indetto dai Ds su Le nuove sfide della difesa italiana). Questa strada è la ricetta sicura per il fallimento e il disastro.

Una seconda causa di ordine strutturale è la non sostenibilità dell'attuale modello di sviluppo, sorretto da una concezione economica del tutto astratta, slegata dalla realtà e funzionale prevalentemente a una operazione di dominio dei paesi ricchi su quelli impoveriti e delle classi sociali ricche su quelle emarginate.
Tutta la storia del Medio Oriente degli ultimi cinquant'anni è sostanzialmente legata alla necessità di controllare le fonti petrolifere, indispensabili per alimentare il folle e insostenibile progetto di crescita economica dei paesi industrializzati. Con l'ingresso di Cina e India nello scenario internazionale, questa necessità è diventata ancora più impellente e problematica. Anche l'Italia, nel suo piccolo, vi partecipa, come rivela il dossier ufficiale secondo il quale l'intervento in Iraq e la nostra presenza a Nassirya siano stati sollecitati e motivati dall'interesse dell'Eni al petrolio iracheno.
La cortina fumogena di spiegazioni false, di menzogne colossali e di propaganda è di una superficialità tale che ci si dovrebbe indignare doppiamente: per la falsità in sè e perché siamo trattati come degli imbecilli privi di capacità di intendere e di volere.

Rivolgiamo allora un'altra domanda ai politici, e a noi stessi: abbiamo intenzione, o meno, di progettare e avviare una seconda "transizione", che ci permetta di sganciare la nostra economia dal petrolio e più in generale dalle fonti fossili e nucleari? Le ragioni sono tante e sempre più impellenti: climatiche, di equilibrio, indipendenza e sicurezza internazionale, di stabilità economica. Sapremo agire per tempo, per evitare di ritrovarci nell'arco di qualche decennio in una situazione ingovernabile, o continueremo con i soliti bla bla inconcludenti?

II. Risposte nel dibattito

In un arguto articolo pubblicato sull'"Unità" qualche anno fa, Giangiacomo Migone ricorda che quando era al liceo lui e i suoi compagni si preparavano spesso per un'interrogazione all'ultimo momento e il professore di latino li rimproverava dicendo loro "Bisogna avere studiato", intendendo che non basta studicchiare all'ultimo momento per essere preparati. Rivolgendosi a proposito della vicenda del Kosovo ai suoi colleghi di partito e più in generale a tutti i politici, Migone dice loro la stessa cosa: bisogna avere studiato, ovvero non si possono affrontare le questioni di politica estera all'ultimo minuto, senza neppure sapere dov'è e cos'è il Kosovo! L'ignoranza non paga. Da un'indagine fatta tra i parlamentari europei risultava che la stragrande maggioranza non sapeva neppure dove fosse il Kosovo. Questa ignoranza fa il paio con la totale mancanza di attenzione e di conoscenza verso quanto è stato pensato, elaborato e studiato, da almeno quattro decenni, nel campo della peace research su scala internazionale. Non pretendo che si prendano per oro colato questi studi, ma almeno che non vengano ignorati, e se non si è d'accordo si dica perché, in modo argomentato e non generico. La responsabilità di questo atteggiamento si estende oltre che ai politici anche agli accademici che raramente sono disposti a mettere in discussione le loro idee e i paradigmi acquisiti.
Per quanto riguarda il Kosovo, occorre ricostruire correttamente i fatti.
Nell'ottobre del 1998, quando ormai una parte dei giochi era già precostituita, vennero create artificiosamente le condizioni per intervenire militarmente, perché quella era la posizione caldeggiata dagli Stati Uniti per i loro interessi geostrategici (si veda la gigantesca base aerea di Blondsteel, la più grande del mondo fuori dai confini nazionali, costruita dagli Usa in tre mesi, nel 1999, subito dopo l'intervento e oggi adibita a prigione per sospetti terroristi, cfr. l'articolo Una Guantanamo in Kosovo, ne "La Repubblica" del 28 novembre 2005). La situazione era pesante, persino drammatica, ma non si trattava certo di genocidio. Sarebbe stato possibile inviare una consistente forza di interposizione civile, non armata, o anche mista, ma ci si è ben guardati dal farlo. Non si inviò neppure un numero sufficiente di osservatori, e molti di quelli inviati si seppe poi che erano agenti al servizio della Cia per individuare gli obiettivi da colpire. Le commissioni d'inchiesta che dopo la guerra avevano il compito di stabilire il numero delle vittime accertate ne trovarono, per fortuna, un numero di gran lunga inferiore, di almeno un fattore dieci, rispetto a quanto ventilato a sostegno della propaganda interventista. Il grande esodo dei kosovari di lingua albanese, che sembrò giustificare l'ordine di intervento, fu provocato dai bombardamenti della Nato e non dall'esercito o dalle milizie serbe. La popolazione fu costretta e invitata a fuggire proprio per giustificare ulteriormente l'intervento. E gli aerei Nato colpirono più volte obiettivi civili, definiti, al solito, come "effetti collaterali".
Un bellissimo video, Women in Black, dà un'idea concreta di cosa sarebbe stato possibile fare sin dal capodanno di due anni prima per abbattere il regime di Milosevic, che certamente non intendiamo difendere o giustificare, ma che non è stato affatto l'unico responsabile di quanto è accaduto. Il video mostra le sequenze di una straordinaria manifestazione a Belgrado che avrebbe potuto essere l'avvio di una transizione democratica, se fosse stata sostenuta opportunamente a livello internazionale. Il che avvenne dopo l'attacco militare ad opera del movimento Otpor (resistenza, in serbo), certamente discutibile, parzialmente cooptato e finanziato dalla Cia, che tuttavia seppe rovesciare Milosevic dopo le fallimentari elezioni che seguirono alla fine della guerra. In seguito, questa esperienza è stata esportata altrove (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) con le cosiddette "rivoluzioni colorate". Sembra che la Cia abbia scoperto che qualche volta conviene esportare la democrazia con movimenti pseudo-nonviolenti: costa meno che fare la guerra. Nonostante tutti i limiti di queste rivoluzioni manipolate dall'alto, si può ritenere pragmaticamente che sono pur sempre il male minore rispetto alla guerra. Ma in Iraq non è stata scelta questa strada, che pure era ampiamente praticabile.
Come ha scritto giustamente qualche giornalista, i missili in Iraq, come quelli in Kosovo, "sono partiti cinquant'anni fa", perché non si possono combattere guerre di questo genere se non progettandole con largo anticipo.
I sistemi d'arma impiegati richiedono decenni per essere realizzati, non sono certo disponibili all'ultimo momento. Sono frutto di una pianificazione, di una strategia che coinvolge l'intero complesso militare-industriale-scientifico-corporativo. La guerra non è affatto l'extrema ratio, come sostengono farisaicamente i politici, ma la prima e unica ratio.

Per queste, e altre, ragioni è assolutamente indispensabile modificare l'attuale modello di difesa, seppure attraverso obiettivi intermedi.
Ai politici chiediamo dunque se nei prossimi programmi elettorali del 2006 sono o meno disposti a impegnarsi per trasferire il 5 % del bilancio delle spese militari alla costruzione di Corpi Civili di Pace, alla realizzazione di un modello di difesa difensivo e nonviolento, alla costruzione e diffusione di una autentica cultura della pace e della nonviolenza in tutti i settori della società. Questa modesta percentuale è pari a circa un miliardo di euro. Pur essendo irrisoria per il bilancio dello stato, è una somma incredibile per i modestissimi bilanci dei movimenti per la pace che mai hanno avuto a disposizione risorse istituzionali di tale entità per realizzare i loro progetti. Chiediamo dunque impegni precisi e concreti, che permettano di avviare qui e ora la transizione dalla difesa offensiva a quella esclusivamente difensiva e parallelamente a quella nonviolenta. Le forze politiche devono esprimersi su questi tematiche.

Questo sarebbe un primo e decisivo passo per avviare la riconversione del complesso militare industriale, che oggi è il pericolo numero uno delle democrazie.
Nel corso di un seminario che si è svolto qualche tempo fa presso il Centro "Sereno Regis" di Torino, un noto e autorevole docente di relazioni internazionali, Luigi Bonanate, intervenuto durante la presentazione di uno dei suoi ultimi lavori (La politica internazionale tra guerra e terrorismo, Laterza, Roma-Bari 2005) osservò che è indispensabile abolire il segreto militare, uno strumento che oggi viene usato per falsificare tutta quanta l'informazione relativa alla politica internazionale, per tramare nell'ombra, per mettere in pericolo le nostre democrazie, per promuovere occasioni di guerra, per perpetrare l'ingiustizia, i massacri, gli omicidi mirati.
Le strutture militari in generale, e i servizi segreti in particolare, sono di fatto entitè criminali, dove si salvano solo poche persone, che vengono emarginate e talvolta uccise. Per un funzionario onesto come Nicola Calipari, ve ne sono altri mille prezzolati che complottano.
I nostri parlamentari non possono limitarsi a dichiarare la loro buona fede (quando esiste). Hanno l'obbligo di documentarsi e di rispondere puntualmente alle nostre richieste, nonché alle critiche che provengono dalle fonti più autorevoli e informate. Non ho mai sentito nessuno di loro, nessuno dei dirigenti e dei segretari di partito rispondere alle documentatissime critiche di autori come Johan Galtung (Ci sono alternative!, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989; Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000), William Blum (Rapporto dall'impero, Fazi, Roma 2005), Ekkehart Krippendorff (Critica della politica estera, Fazi, Roma 2004).
Forse è chiedere troppo, ma per fare politica estera, e non solo, "bisogna avere studiato!".