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La sfida di Danilo Dolci (Attilio Bolzoni)

Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza", n- 642 del 17 novembre 2008 e tratto dal quotidiano "La Repubblica" del 29 gennaio 2006 col titolo "Cinquant'anni fa la sfida di Danilo Dolci"
Partinico.
È ancora senza nome questa strada che dal paese scende fino al mare. Ripida nel primo tratto, poi va giù dolcemente con le sue curve che sfiorano alberi di pesco e di albicocco, passa sotto due ponti, scavalca la ferrovia. L'hanno asfaltata appena una decina di anni fa, prima era un sentiero, una delle tante regie trazzere borboniche che attraversano la campagna siciliana. È lunga otto chilometri, un giorno forse la chiameranno via dello Sciopero alla Rovescia.
Siamo sul ciglio di questa strada di Partinico mezzo secolo dopo quel 2 febbraio del '56, la stiamo percorrendo sulle tracce di un uomo che sapeva inventare il futuro. Era un irregolare Danilo Dolci, uno di confine. Quella mattina erano quasi in mille qui sul sentiero e in mezzo al fango, inverno freddo, era caduta anche la neve sullo spuntone tagliente dello Jato. I pescatori venivano da Trappeto e i contadini dalle valli intorno, c'erano sindacalisti, allevatori, tanti disoccupati. E in fondo quegli altri, gli "sbirri" mandati da Palermo, pronti a caricare e a portarseli via quelli lì. Volevano rimetterla in sesto loro la strada accidentata e abbandonata, volevano far capire a tutti che si poteva fare, e avere anche un lavoro per portare a casa il pane. Era lo Sciopero alla Rovescia.
A capo della rivolta c'era un utopista di mestiere che era sociologo, architetto, pedagogo, filosofo, antropologo, che era pacifista e musicista e agitatore sociale, scrittore, giornalista, poeta. C'era Danilo a farsi trascinare a forza dai carabinieri, che poi lo cacciarono dentro l'Ucciardone con altri sei compagni. Era calato nella Sicilia infelice degli anni Cinquanta per dare voce a chi non l'aveva mai avuta, il triestino sognatore, e cominciò una straordinaria avventura nell'isola più sporca e cattiva del Mediterraneo.
I capi di imputazione furono tre. Articolo 341 del codice penale: resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Articolo 415: istigazione a disobbedire alle leggi. Articolo 633: invasione di terreni. All'Ucciardone passò quasi due mesi, poi il consigliere istruttore Marcataio lo rinviò a giudizio: "Nonostante le precedenti diffide, il Dolci e gli altri imputati hanno persistito nella loro attività criminosa organizzando l'arbitraria invasione di una trazzera demaniale... tale condotta e le condizioni di vita individuale e sociale del Dolci sono manifesti indici di una spiccata capacità a delinquere". Il processo fu il suo palcoscenico. Sfilò in aula come teste a difesa Carlo Levi. E poi Elio Vittorini, che al Tribunale si rivolse così: "Sono siciliano e so che questa regione è una specie di India, vi è del fatalismo e vi sono delle caste, uomini come Dolci ce ne vorrebbero molti in Sicilia". Le arringhe furono affidate a Piero Calamandrei e a un giovanissimo Nino Sorgi, l'avvocato palermitano delle cause nobili. La stampa nazionale e internazionale scoprì "il Gandhi del Sud" che aveva scelto di stare tra i derelitti. Ci fu però sentenza di condanna: 50 giorni di reclusione. La sua vicenda giudiziaria fu raccolta in un libro edito da Einaudi, Processo all'articolo 4, il diritto di tutti i cittadini al lavoro sancito dalla Costituzione.
Oggi è rimasto vivo solo uno di quei sette arrestati del 2 febbraio '56, allora aveva vent'anni. Si chiama Gaetano Ferrante, è il direttore del dipartimento di fisica dell'Università di Palermo. Dopo le battaglie con Danilo emigrò in Unione Sovietica, laurea a Mosca, il ritorno in Sicilia.
Racconta: "Dovevamo dimostrare che si poteva rendere transitabile la strada, era l'occasione per offrire lavoro ai disperati". Scava nella memoria: "Quella sera ci portarono prima alla caserma Carini, alle spalle del teatro Massimo. C'erano anche due sindacalisti con noi, Salvatore Termini e Ignazio Speciale. Avevano appena fatto una retata di prostitute, c'era freddo e le coperte erano poche, solo la mattina dopo ci trasferirono all'Ucciardone, dove erano rinchiusi alcuni banditi". I banditi di un'isola che si sognava indipendentista e stella della bandiera americana, i superstiti di un movimento per la "liberazione" della Sicilia che era impasto di miseria e grandezza, di Stato e di mafia. Ricorda Ferrante: "I banditi ci accolsero bene all'Ucciardone, ci continuavano a chiedere: 'Quando ci liberate, quando ci liberate?'. Ci riconoscevano come rivoluzionari, Danilo in quel momento era una speranza anche per loro".
Lo Sciopero alla Rovescia sulla regia trazzera di Partinico segnò la svolta per Dolci, ormai oggetto di culto di un'Italia progressista. Con lui si schierarono La Pira, Piovene, Guttuso, Zevi, Bertrand Russell, Moravia, Bobbio e Zavattini, Silone, Sellerio, Lucio Lombardo Radice e Aldo Capitini, Paolo Sylos Sabini, Eric Fromm, Johan Galtung, Sartre. E Jean Piaget, che negli anni seguenti lo propose per cinque volte - senza esito - per il Nobel per la Pace. A tutti loro confessava: "Io sono un utopista che cerca di tradurre l'utopia in progetto, non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no".

Nel sud estremo cambiò la vita a molti. In Sicilia c'era stato da bambino, quando suo padre Enrico era capostazione proprio a Trappeto. E vi aveva fatto ritorno nel '52 dopo aver lasciato Nomadelfia, il campo di concentramento nazifascista di Fossoli che don Zeno Saltini aveva trasformato in una comunità per i bimbi sbandati della guerra. Arrivato a Trappeto fondò il suo primo centro, il Borgo di Dio. C'era fame, i contadini andavano a lavorare "da scuro a scuro" - da prima dell'alba a dopo il tramonto - e si incontravano in quei territori urbani che Danilo chiamava "omili", i porcili dove vivevano gli uomini. A Partinico, ce n'era uno a Spine Sante.
Siamo passati anche da lì, cinquant'anni dopo. Da via Pellerito, via della Vite, via Malagrinò, via Caminito. Ci sono ancora i resti di quei tuguri agli spigoli di qualche vicolo, tane, antri dove abitavano 390 famiglie senza acqua e senza fogne e senza luce. Il suo primo digiuno lo cominciò il 14 ottobre del 1952, il giorno che il figlio di Giustina se ne andò. "Mia madre mi ha raccontato che il neonato morì di inedia, quando provarono a dargli qualche goccia di latte non aveva più neanche la forza di deglutire", ci ricorda Giuseppe Casarrubea, uno dei tanti ai quali Danilo ha mutato l'esistenza, storico, quattro libri sulla strage di Portella della Ginestra e il padre ammazzato nel '47 negli assalti alle Camere del Lavoro della banda Giuliano.
In uno degli "omili" di Partinico, Danilo ha conosciuto Vincenzina che era rimasta vedova con i suoi cinque figli. L'ha sposata. E da lei ha avuto altri cinque figli: Amico, Cielo, Chiara, Libera e Daniela. La sua vita ormai era là, tra gli ultimi.
Un suo allievo è diventato anche suo studioso, è Salvatore Costantino, professore di sociologia, nato a Partinico come Ferrante e come Casarrubea.
Descrive il suo paese in quegli anni: "Prima di lui non si era mai sentito parlare di Partinico, poi lo conoscevano in tutto il mondo: Danilo ha avuto la grande intelligenza di accendere i riflettori su un angolo di Sicilia dove si moriva di fame".

Il filo diretto con gli intellettuali europei, imputato in 26 processi, irruente, fantasioso, a volte insofferente e autoritario, una personalità straripante che con la sua "resistenza disarmata" fece alzare finalmente la testa alla Sicilia. E portò a 170.000 abitanti l'utopia: l' acqua.
Diceva che la Sicilia era assetata di "acqua democratica", fu la grande battaglia per la diga sullo Jato. Assemblee nelle valli, la paura delle ritorsioni dei capibastone come i Fleres e i Coppola, i campi sempre più arsi fino a quando seimila contadini si ritrovarono al suo fianco. Quei mesi li ricostruisce Benedetto Zenone, che ai tempi era appena un ragazzo: "Sosteneva che avevamo bisogno dell'acqua democratica e non dell'acqua di mafia che vendevano i boss, l'intuizione della diga fu di un contadino, Natale Russo, che un giorno sussurrò a Danilo: 'Ci vorrebbe un bacile, un recipientè. Così Danilo trasformò l'intuizione in progetto". C'era un piccolo fiume che scendeva dalle rocce di San Giuseppe e buttava la sua acqua in mare. Dopo marce e digiuni la diga sullo Jato si cominciò a costruire, nel '63.
È ancora lì, maestosa, incastrata in una gola. A vederla lassù, il professor Casarrubea si commuove: "Questa diga non ha solo cambiato il sistema produttivo, ha cambiato le nostre teste, ci ha fatto diventare migliori".

Poi venne il terremoto nel Belice, la notte tra il 14 e il 15 gennaio del '68 ventidue paesi siciliani furono rasi al suolo. Due anni dopo in centomila erano ancora nelle tende e nelle baracche. Danilo inventò un'altra delle sue proteste, a Partinico nacque la prima radio libera d'Italia. Due suoi compagni si asserragliarono nel centro studi, la voce della rivolta si diffuse per 27 ore ininterrotte: "Sos, qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale attraverso la radio della nuova resistenza... Sos". Uno dei due compagni che il 25 marzo del '70 si blindò là dentro era Pino Lombardo: "Fu un'operazione segretissima, venne un giudice di cui non ho mai saputo il nome a far funzionare la radio, un muratore montò l'antenna sul tetto mezz'ora prima dell'inizio delle trasmissioni, con Franco Alasia siamo rimasti chiusi fino all'irruzione di polizia".

L'ultima parte della sua vita Danilo Dolci - che è morto a 73 anni nel 1997 - l'ha dedicata all'educazione. Ha voluto una scuola sperimentale per i bimbi della sua Sicilia. Amico, il figlio flautista, ci accompagna a Mirto.
La scuola è nascosta tra gli ulivi. Ci sono 240 bambini delle materne e delle primarie, c'è uno stagno con le rane, ci sono i fiori, gli insetti, c'è la montagna con i suoi odori. Amico sorride e dice: "Questi sono bambini fortunati".