Proponiamo il seguente scritto, ripreso dall'opuscolo: Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1993. Tratto dal n. 1125 del 25/11/2005 del notiziario La nonviolenza è in cammino.
Spesso è sorto il quesito del mio pellegrinaggio intellettuale verso la nonviolenza. Per rispondere a questo quesito è necessario tornare indietro alla mia prima adolescenza in Atlanta. Ero cresciuto aborrendo non solo la segregazione ma anche gli atti oppressivi e barbari che si sviluppavano da essa. Avevo attraversato luoghi in cui i neri erano stati selvaggiamente linciati, ed avevo assistito alle cavalcate notturne del Ku Klux Klan. Avevo visto con i miei occhi la brutalità della polizia e i neri ricevere la più tragica ingiustizia nei tribunali. Tutte queste cose avevano influito in qualche modo sulla mia personalità in formazione. Ero giunto pericolosamente vicino al rancore verso tutti i bianchi.
Avevo anche imparato che l'inseparabile gemella dell'ingiustizia razziale era l'ingiustizia economica. Sebbene provenissi da una famiglia economicamente sicura e relativamente benestante, non ho mai potuto togliermi di mente l'insicurezza economica di molti miei compagni e la tragica povertà di coloro che mi vivevano intorno. Durante gli ultimi anni dell'adolescenza lavorai per due estati, contro la volontà di mio padre (egli non ha mai voluto che mio fratello ed io lavorassimo fra gente bianca a causa delle condizioni oppressive), in una fabbrica che assumeva neri e bianchi. Qui vidi di prima mano l'ingiustizia economica e capii che i bianchi poveri erano sfruttati proprio come i neri. Attraverso queste precoci esperienze crebbi profondamente conscio della verità delle ingiustizie nella nostra società.
Così quando nel 1944 entrai come matricola al Collegio Morehouse di Atlanta, il mio interesse per l'ingiustizia razziale ed economica era già consistente. Durante gli studi al Morehouse lessi per la prima volta il Saggio sulla disobbedienza civile di Thoreau. Affascinato dall'idea del rifiuto di cooperare con un sistema ingiusto, fui colpito così profondamente che rilessi l'opera diverse volte. Questo fu il mio primo contatto intellettuale con la teoria della resistenza nonviolenta.
La filosofia sociale Comunque, finché non entrai al Seminario teologico Crozer, nel 1948, non cominciai una seria ricerca intellettuale di un metodo per eliminare il male sociale. Sebbene il mio maggior interesse fosse nel campo della teologia e della filosofia, trascorsi molto tempo a leggere le opere dei grandi filosofi sociali. Una delle mie prime letture fu Cristianesimo e crisi sociale di Walter Rauschenbusch, che lasciò un'impronta indelebile nel mio pensiero col darmi una base teologica per l'interesse ai problemi sociali, che era già sorto in me come risultato delle mie prime esperienze.
Naturalmente, vi erano punti sui quali dissentivo da Rauschenbusch. Sentivo che egli era stato vittima del "culto dell'inevitabile progresso" proprio del XIX secolo, che lo portava a un superficiale ottimismo nei riguardi della natura umana. Per di più, egli giungeva pericolosamente vicino all'identificazione del Regno di Dio con un particolare sistema sociale ed economico - una tendenza che non dovrebbe mai trovarsi nella Chiesa. Ma, a dispetto di queste manchevolezze, Rauschenbusch aveva reso un grande servizio alla Chiesa Cristiana sostenendo che il Vangelo si occupa dell'uomo intero; non solo della sua anima ma del suo corpo, non solo del suo benessere spirituale ma del suo benessere materiale. Dopo la lettura di Rauschenbusch, ho sempre conservato la convinzione che qualsiasi religione, che professa l'interesse per le anime degli uomini e non per le condizioni sociali ed economiche che sfregiano l'anima, è una religione spiritualmente moribonda in attesa del giorno della sepoltura. È stato affermato giustamente: "Una religione che finisce con l'individuo, muore".
Dopo aver letto Rauschenbusch, mi volsi a un serio studio delle teorie sociali ed etiche dei grandi filosofi, da Platone e Aristotele fino a Rousseau, Hobbes, Bentham, Mill e Locke. Tutti questi maestri stimolarono il mio pensiero - quale che fosse - e, mentre trovavo affermazioni da discutere in ciascuno di essi, nondimeno imparai moltissimo dal loro studio.
Lo studio dei marxismo Durante le vacanze di Natale del 1949 decisi di impiegare il mio tempo libero leggendo Marx per tentare di comprendere l'attrazione del comunismo su molte persone. Per la prima volta esaminai attentamente Il Capitale e il Manifesto dei comunisti. Lessi anche alcuni saggi critici sul pensiero di Marx e Lenin. Durante la lettura di questi scritti di comunisti, tracciai certe conclusioni che sono rimaste in me fino ad oggi come convinzioni.
Anzitutto, respinsi la loro interpretazione materialistica della storia. Il comunismo, dichiaratamente laico e materialista, non ha posto per Dio.
Questo non ho mai potuto accettarlo perché, come cristiano, credo nell'esistenza in questo universo di un potere personale creativo, che costituisce il fondamento e l'essenza di tutta la realtà - un potere che non può essere spiegato in termini materialistici. La storia è fondamentalmente governata dallo spirito, non dalla materia. In secondo luogo, dissentivo fortemente dal relativismo etico del comunismo. Poiché per i comunisti non c'è un governo divino, nè un ordine morale assoluto, non esistono principi fissi e immutabili; di conseguenza quasi tutto - forza, violenza, assassinio, menzogna - è un mezzo giustificabile per raggiungere il fine ultimo. Questo genere di relativismo era ripugnante per me. Fini costruttivi non possono mai dare assoluta giustificazione morale a mezzi distruttivi, per la ragione che, in ultima analisi, il fine è preesistente nel mezzo. In terzo luogo, ero contrario al totalitarismo politico del comunismo. Nel comunismo l'individuo finisce per essere soggetto allo Stato. In verità, i marxisti sostengono di solito che lo Stato è una realtà "provvisoria", che deve essere eliminata quando sorge la società senza classi; ma lo Stato, finché è in vita, è il fine e l'uomo soltanto un mezzo verso quel fine. E se i cosiddetti diritti o libertà di ogni uomo fanno opposizione al raggiungimento di quel fine, essi vengono semplicemente spazzati via. La sue libertà di espressione, la sua libertà di votare, di ascoltare le notizie che preferisce o di scegliere i libri, vengono tutte limitate. Nel comunismo, difficilmente l'uomo diventa più di un ingranaggio privo di personalità nella ruota dello Stato.
Questa negazione della libertà individuale era riprovevole secondo me. Sono convinto, ora come allora, che l'uomo è un fine in quanto è figlio di Dio.
L'uomo non è fatto per lo Stato; lo Stato è fatto per l'uomo. Privare l'uomo della libertà significa relegarlo alla condizione di cosa, piuttosto che elevarlo allo stato di persona. L'uomo non deve mai essere trattato come un mezzo al servizio dello Stato, ma sempre come un fine in se stesso.
La sfida del comunismo Tuttavia, a dispetto del fatto che la mia risposta al comunismo era ed è negativa e che lo consideravo fondamentalmente dannoso, c'erano punti nei quali lo trovavo stimolante. Il defunto Arcivescovo di Canterbury, William Temple, si riferiva al comunismo come ad un'eresia cristiana. Con ciò egli intendeva dire che il comunismo ha afferrato certe verità che sono parti essenziali della concezione cristiana, ma che ha unito ad esse concetti e pratiche che nessun cristiano potrebbe mai accettare o professare. Il comunismo sfidava il defunto Arcivescovo e dovrebbe sfidare ogni cristiano - come sfidava me - ad un crescente interesse per la giustizia sociale. Pur con le sue false ipotesi e i cattivi metodi, il comunismo crebbe come una protesta contro le sofferenze dei poveri. Il comunismo in teoria metteva in evidenza una società senza classi e l'interesse per la giustizia sociale, sebbene il mondo sappia da una dolorosa esperienza che in pratica ha creato nuove classi e un nuovo genere di ingiustizia. Il cristiano dovrebbe sempre essere stimolato da qualsiasi protesta contro l'ingiusto trattamento dei poveri, poiché il Cristianesimo è esso stesso una tale protesta, in nessun luogo espressa più eloquentemente che nelle parole di Gesù: "Lo Spirito del Signore è su di me, perché Egli mi ha consacrato a predicare il Vangelo ai poveri; Egli mi ha inviato a sanare i sofferenti, e ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione della vista ai ciechi, a mettere in libertà coloro che sono oppressi, a proclamare l'anno di grazia dei Signore".
Cercai anche risposte sistematiche alla critica di Marx della moderna cultura borghese. Egli presentava il capitalismo essenzialmente come una lotta fra i proprietari dei mezzi di produzione ed i lavoratori, che Marx considerava i veri produttori. Marx interpretava le forze economiche come il processo dialettico mediante il quale la società muoveva dal feudalesimo al socialismo attraverso il capitalismo, essendo la lotta tra classi economiche dagli interessi inconciliabili il motore principale di questo movimento storico. Ovviamente questa teoria non teneva conto di numerosi e significativi aspetti - politici, economici, morali, religiosi e psicologici - che hanno giocato un ruolo vitale nel foggiare la costellazione di istituzioni e di idee, nota oggi come la "civiltà occidentale". Inoltre, era una concezione invecchiata nel senso che il capitalismo descritto da Marx presentava una somiglianza solo parziale col capitalismo che conosciamo oggi in questo paese.
Critica dei comunismo e del capitalismo Ma, nonostante le deficienze della sua analisi, Marx aveva sollevato alcune questioni fondamentali. Fin dalla prima adolescenza fui profondamente turbato dall'abisso esistente fra la ricchezza superflua e la povertà abietta, e la lettura di Marx mi rese ancor più consapevole di questo abisso. Sebbene il capitalismo americano moderno avesse grandemente ridotto tale divario attraverso riforme sociali, c'era ancora bisogno di una migliore distribuzione della ricchezza. Inoltre, Marx aveva rivelato il pericolo della ricchezza e del profitto come unica base di un sistema economico: il capitalismo corre sempre il pericolo di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere. Noi siamo inclini a giudicare il successo dall'indice dei nostri salari o dalle dimensioni delle nostre automobili, piuttosto che dalla qualità del nostro servizio e delle relazioni verso l'umanità - in questo modo il capitalismo può portare a un materialismo pratico, che è dannoso quanto il materialismo insegnato dal comunismo.
In breve, ho letto Marx come lessi tutti gli autorevoli pensatori storici - da un punto di vista dialettico, combinando un parziale "sì" ed un parziale "no". In quanto Marx ha posto un materialismo metafisico, un relativismo etico e un totalitarismo che strangola, ho risposto con un deciso "no"; ma in quanto ha mostrato la debolezza del capitalismo tradizionale, ha contribuito allo sviluppo di una determinata autocoscienza nelle masse e ha stimolato la coscienza sociale delle Chiese cristiane, ho risposto con un preciso "sì".
La lettura di Marx mi convinse anche che la verità non si trova nè nel marxismo nè nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verità parziale. Storicamente il capitalismo non riuscì a vedere la verità nell'impresa collettiva e il marxismo non riuscì a vederla nell'iniziativa privata. Il capitalismo del XIX secolo non capì che la vita è anche sociale e il marxismo non comprese e ancora non comprende che la vita è anche individuale e personale. Il Regno di Dio non è nè la tesi dell'iniziativa individuale nè l'antitesi dell'impresa collettiva, ma la sintesi che riconcilia le verità di entrambe.
Durante la mia permanenza al Crozer, venni anche a contatto per la prima volta con la posizione pacifista attraverso una conferenza del Dr. A. J.
Muste. Fui profondamente commosso dal discorso del Dr. Muste, ma per niente convinto della possibilità di mettere in pratica la sua posizione. Come la maggior parte degli studenti del Crozer, sentivo che la guerra, mentre non poteva mai essere un bene positivo o assoluto, poteva servire come un bene negativo nel senso di impedire la diffusione e la crescita di una forza malvagia. La guerra, per quanto orribile, poteva essere preferibile alla resa a un sistema totalitario nazista, fascista o comunista.
Lo studio di Nietzsche e di Gandhi Durante questo periodo avevo quasi disperato del potere dell'amore di risolvere i problemi sociali. Forse la mia fede nell'amore era temporaneamente scossa dalla filosofia di Nietzsche. Avevo letto parti della Genealogia della morale e tutta la Volontà di potenza. L'esaltazione di Nietzsche della potenza - secondo la sua teoria tutta la vita esprime la volontà di potenza - era una conseguenza del suo disprezzo per la morale comune. Egli attaccava l'intera etica ebraico-cristiana - con le sue virtù di pietà e umiltà, il suo ascetismo e il suo atteggiamento verso la sofferenza - come la glorificazione della debolezza, poiché essa trasforma in virtù la necessità e l'impotenza. Egli mirava allo sviluppo di un superuomo che superasse l'uomo come l'uomo ha superato la scimmia.
Allora, una domenica pomeriggio, andai a Philadelphia per ascoltare un sermone del Dr. Mordecai Johnson, presidente della Howard University. Egli si trovava là per predicare per la "Fellowship House" di Philadelphia. Il Dr. Johnson era appena tornato da un viaggio in India e, con mio grande interesse, parlò della vita e dell'insegnamento del Mahatma Gandhi. Il suo messaggio era così profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi.
Come la maggior parte delle persone, avevo sentito parlare di Gandhi, ma non lo avevo mai studiato seriamente. Come procedetti nella lettura, fui profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta. Fui particolarmente commosso dalla "marcia del sale" verso il mare e dai suoi numerosi digiuni. Tutto il concetto di Satyagraha (Satya è verità che equivale ad amore e agraha è forza; Satyagraha, perciò, significa forza della verità o forza dell'amore) era profondamente significativo per me.
Via via che studiavo più profondamente la filosofia di Gandhi, il mio scetticismo riguardo la potenza dell'amore gradualmente diminuì e giunsi, per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma sociale. Prima di leggere Gandhi, avevo quasi concluso che l'etica di Gesù fosse efficace soltanto nei rapporti individuali. La filosofia del "porgi l'altra guancia" e dell'"amate i vostri nemici" sentivo che era valida solo quando gli individui erano in conflitto con altri individui; quando invece erano in conflitto gruppi razziali e nazioni, sembrava necessario un comportamento più realistico. Ma dopo aver letto Gandhi, vidi che ero completamente in errore.
Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l'etica dell'amore di Gesù al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace. L'amore, per Gandhi, era uno strumento potente per operare un mutamento sociale collettivo. Fu in questa insistenza gandhiana sull'amore e la nonviolenza che scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti mesi. La soddisfazione intellettuale e morale che non avevo saputo ricavare dall'utilitarismo di Bentham e Mill, dai metodi rivoluzionari di Marx e Lenin, dalla teoria del contratto sociale di Hobbes, dall'ottimismo del "ritorno alla natura" di Rosseau e dalla filosofia del superuomo di Nietzsche, la trovai nella filosofia della resistenza nonviolenta di Gandhi.
Giunsi a sentire che questo era l'unico metodo, moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la libertà.
La lettura di Reinhold Niebuhr La mia odissea intellettuale verso la nonviolenza non finì qui. Durante il mio ultimo anno nella scuola teologica, cominciai a leggere le opere di Reinhold Niebuhr. Mi attraevano gli elementi profetici e realistici nell'appassionato stile di Niebuhr e il profondo pensiero; e mi innamorai tanto della sua etica sociale che quasi caddi nella trappola di accettare acriticamente tutto ciò che egli scriveva.
Circa in questo periodo lessi la critica di Niebuhr alla posizione pacifista. Niebuhr stesso in passato era stato membro del movimento pacifista. Per diversi anni era stato presidente del Movimento per la Riconciliazione. La sua rottura con il pacifismo avvenne all'inizio degli anni trenta, e la prima completa esposizione della sua critica del pacifismo si trovò in Uomo morale e società immorale. Qui egli argomentava che non c'era alcuna intrinseca differenza morale fra la resistenza violenta e nonviolenta. Le conseguenze sociali dei due metodi erano differenti, egli sosteneva, ma le differenze erano di grado piuttosto che di genere. Più tardi Niebuhr cominciò a mettere in evidenza la irresponsabilità di confidare sulla resistenza nonviolenta, quando non c'era alcun fondamento per credere che essa avrebbe avuto successo nell'impedire la diffusione della tirannide totalitaria. Essa potrebbe avere successo, egli sosteneva, soltanto se i gruppi contro cui tale resistenza avveniva possedessero in qualche misura una coscienza morale, come era il caso della lotta di Gandhi contro gli inglesi. Il rifiuto finale del pacifismo, da parte di Niebuhr, era basato principalmente sulla concezione dell'uomo. Egli sosteneva che il pacifismo non era in grado di rendere giustizia alla dottrina della Riforma della giustificazione per fede, sostituendo ad essa un perfezionismo settario che crede "che la grazia divina realmente solleva gli uomini fuori dalle immorali contraddizioni della storia e pone l'uomo al di sopra dei peccati del mondo".
In un primo momento, la critica del pacifismo, fatta da Niebuhr, mi lasciò in uno stato di confusione. Via via che continuai a leggere, nondimeno, giunsi a vedere sempre più chiaramente le deficienze della sua posizione.
Per esempio, molte sue affermazioni rivelavano che egli interpretava il pacifismo come una specie di non-resistenza passiva al male, che manifestava ingenua fiducia nel potere dell'amore. Ma questo era un grande fraintendimento. Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero pacifismo non è non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al male.
Fra le due posizioni c'è enorme differenza. Gandhi fece resistenza al male con altrettanto vigore e potenza del resistente violento, ma egli resistette con l'amore al posto dell'odio. Il vero pacifismo non è ingenua sottomissione al potere del male, come sostiene Niebuhr. È piuttosto un coraggioso confronto col male attraverso la potenza dell'amore, nella convinzione che è meglio essere chi riceve violenza e non chi la infligge, dal momento che quest'ultimo moltiplica soltanto l'esistenza della violenza e del dolore nell'universo, mentre il primo può sviluppare un senso di vergogna nell'avversario e con ciò determinare una trasformazione e un cambiamento del cuore.
Aspetti positivi di Niebuhr A dispetto del fatto che trovai molte cose che lasciavano a desiderare nella filosofia di Niebuhr, c'erano diversi punti nei quali egli influenzò il mio pensiero in maniera costruttiva. Il grande contributo di Niebhur alla teologia contemporanea consiste nel suo rifiuto del falso ottimismo, caratteristico di una grande parte del liberalismo protestante, senza cadere nell'anti-razionalismo del teologo continentale Karl Barth o nel semi-fondamentalismo di altri teologi dialettici. Inoltre, Niebhur studia con straordinario acume la natura umana, specialmente il comportamento delle nazioni e dei gruppi sociali. Egli è acutamente consapevole della complessità delle motivazioni umane e della relazione fra moralità e potere. La sua teologia è un persistente richiamo della realtà del peccato ad ogni livello dell'esistenza dell'uomo. Questi elementi nel pensiero di Niebhur mi aiutarono a riconoscere le illusioni di un superficiale ottimismo concernente la natura umana, e i pericoli di un falso idealismo. Mentre credevo ancora nella potenzialità di bene, insita nell'uomo, Niebhur mi fece altresì comprendere la sua potenzialità di male. Inoltre, Niebhur mi aiutò a riconoscere la complessità delle implicazioni sociali dell'uomo e l'evidente realtà del male collettivo.
Sentivo che molti pacifisti non riuscivano a vedere questo. Quasi tutti avevano un ottimismo infondato riguardo all'uomo e tendevano inconsciamente verso l'ipocrisia. La mia rivolta contro questi atteggiamenti, sotto l'influsso di Niebhur, spiega il fatto che - a dispetto della mia forte inclinazione verso il pacifismo - non entrai mai a far parte di un'organizzazione pacifista. Dopo aver letto Niebhur, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi morali che i non-pacifisti cristiani affrontano.
All'Università di Boston Lo stadio successivo del mio pellegrinaggio intellettuale alla nonviolenza venne durante i miei studi per il dottorato all'Università di Boston. Qui ebbi l'occasione di parlare a molti esponenti della nonviolenza, sia studenti sia professori ospiti dell'Università. La Scuola di teologia dell'Università di Boston, sotto l'influenza di Dean Walter Muelder e del professor Allen Knight Chalmers, aveva una profonda simpatia per il pacifismo. Sia Dean Muelder che il Dr. Chalmers avevano una passione per la giustizia sociale, che derivava non da un superficiale ottimismo, ma da una fede profonda nelle possibilità degli esseri umani quando permettono a se stessi di divenire cooperatori di Dio. Fu all'Università di Boston che giunsi a comprendere che Niebhur aveva sopravvalutato la corruzione della natura umana. Il suo pessimismo riguardo la natura umana non era bilanciato da un ottimismo concernente la natura divina. Egli era così immerso a diagnosticare la malattia del peccato nell'uomo, che aveva trascurato la cura della grazia.
Studiai filosofia e teologia all'Università di Boston sotto la guida di Edgar S. Brightman e L. Harold De Wolf. Entrambi stimolarono moltissimo il mio pensiero. Fu principalmente sotto questi insegnanti che studiai la filosofia personalistica - la teoria che la soluzione del significato della realtà ultima si trova nella personalità. Questo idealismo personale rimane tuttora la mia fondamentale posizione filosofica. L'insistenza del personalismo che soltanto la personalità - finita e infinita - è in definitiva reale rafforzò in me due convinzioni: mi diede un fondamento metafisica e filosofico per l'idea di un Dio personale, e mi diede una base metafisica per affermare la dignità e il valore di ogni personalità umana.
Lettura di Hegel e conclusione degli studi Poco prima della morte del Dr. Brightman, cominciai a studiare con lui la filosofia di Hegel. Sebbene il corso fosse principalmente uno studio dell'opera monumentale di Hegel, Fenomenologia dello Spirito, passai il mio tempo libero leggendo la sua Filosofia della storia e la Filosofia del diritto. C'erano punti nella filosofia di Hegel coi quali mi trovavo in forte disaccordo. Per esempio, il suo idealismo assoluto era, secondo me, razionalmente imperfetto, poiché tendeva ad annullare i molti nell'uno. Ma c'erano altri aspetti del suo pensiero che trovai stimolanti. La sua affermazione che "la verità è il tutto" mi guidò a un metodo filosofico di coerenza razionale. La sua analisi del processo dialettico, a dispetto delle sue manchevolezza, mi aiutò a capire che lo sviluppo avviene attraverso la lotta. Nel 1954 terminai la mia educazione formale con tutte queste forze intellettuali relativamente divergenti, orientandomi verso una positiva filosofia sociale. Uno degli aspetti principali di questa filosofia era la convinzione che la resistenza nonviolenta era uno dei mezzi più potenti accessibili alla gente oppressa nella sua ricerca di giustizia sociale. In quel tempo, tuttavia, avevo semplicemente una comprensione e un apprezzamento intellettuale di questa posizione, senza nessuna ferma decisione di metterla in pratica in una situazione reale.
Quando mi recai a Montgomery come pastore, non avevo la minima idea che più tardi mi sarei trovato coinvolto in una crisi in cui la resistenza nonviolenta sarebbe stata applicabile. Non fui io ad iniziare la protesta nè a suggerirla. Semplicemente risposi alla richiesta di un portavoce della popolazione. Quando la protesta cominciò, la mia mente, consciamente o inconsciamente, fu ricondotta al Discorso della Montagna, con i suoi sublimi insegnamenti sull'amore, e al metodo gandhiano della resistenza nonviolenta.
Col passare dei giorni, giunsi a vedere sempre più chiaramente il potere della nonviolenza. Vivendo attraverso la reale esperienza della protesta, la nonviolenza divenne più di un metodo a cui davo il mio assenso intellettualmente; essa divenne dedizione ad una forma di vita. Molte questioni che non avevo chiarito intellettualmente riguardo alla nonviolenza furono risolte nella sfera dell'azione pratica.
Sei aspetti fondamentali della nonviolenza Dal momento che la filosofia della nonviolenza ha avuto un tale ruolo positivo nel movimento di Montgomery, può essere saggio volgersi ad una breve discussione di alcuni aspetti fondamentali di questa filosofia.
In primo luogo, si deve sottolineare che la resistenza nonviolenta non è un metodo per codardi; essa è autentica resistenza. Se uno usa questo metodo perché ha paura o semplicemente è privo degli strumenti di violenza, costui non è un vero nonviolento. Questa è la ragione per cui Gandhi spesso diceva che se la viltà è l'unica alternativa alla violenza, è meglio combattere. Egli fece questa affermazione conscio del fatto che c'è sempre un'altra alternativa: non è necessario che un individuo o un gruppo si sottomettano a qualche ingiustizia, nè che usino la violenza per riparare tale ingiustizia; c'è la via della resistenza nonviolenta. Questa è in definitiva la via dell'uomo forte. Non è un metodo di stagnante passività. La frase "resistenza passiva" offre spesso la falsa impressione che questo è una sorta di "metodo del far niente", in cui il resistente accetta il male quietamente e passivamente. Ma nessuna affermazione è più lontana di questa dalla verità. Perché, mentre il resistente nonviolento è passivo nel senso che non è fisicamente aggressivo verso il suo avversario, la sua mente e le sue emozioni sono sempre attive, costantemente cercando di persuadere l'avversario che egli è nel torto. Questo metodo è passivo fisicamente, ma fortemente attivo spiritualmente. Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male.
Un secondo fatto fondamentali che caratterizza la nonviolenza è che essa non cerca di sconfiggere o umiliare l'avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione. Il resistente nonviolento deve spesso esprimere la sua protesta attraverso la non-cooperazione o il boicottaggio, ma egli comprende che questi non sono fini in se stessi; essi sono semplicemente mezzi per svegliare un senso di vergogna morale nell'avversario. Il fine è la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza è la creazione della comunità nell'amore, mentre la conseguenza della violenza è la tragica amarezza.
Una terza caratteristica di questo metodo è che l'attacco è diretto contro le forze del male piuttosto che contro le persone alle quali succede di stare facendo il male. È il male che il resistente nonviolento cerca di sconfiggere, non le persone ingannate dal male. Se sta combattendo l'ingiustizia razziale, il resistente nonviolento ha l'intuito di capire che la tensione fondamentale non è fra le razze. Come mi piace dire alla gente di Montgomery: "La tensione in questa città non è fra la gente bianca e quella nera. La tensione è, in fondo, tra giustizia e ingiustizia, fra le forze della luce e le forze delle tenebre. E se ci sarà una vittoria, sarà una vittoria non semplicemente per cinquantamila neri, ma una vittoria per la giustizia e le forze della luce. Noi siamo fuori per sconfiggere l'ingiustizia e non uomini bianchi che eventualmente siano ingiusti".
Un quarto punto che caratterizza la resistenza nonviolenta è una disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le percosse dell'avversario senza restituirle. "Fiumi di sangue devono forse scorrere prima che conquistiamo la libertà, ma deve essere sangue nostro", diceva Gandhi ai suoi compatrioti. Il resistente nonviolento è disposto ad accettare la violenza se necessario, ma mai ad infliggerla. Non cerca di evitare il carcere. Se andare in prigione è necessario, egli entra in prigione "come uno sposo entra nella camera della sposa".
Qualcuno potrebbe chiedere giustamente: "Qual è la giustificazione del resistente nonviolento per questa prova alla quale invita gli uomini, per questa applicazione politica di massa dell'antica dottrina di offrire l'altra guancia?". La risposta si trova nel riconoscimento che la sofferenza non meritata è capace di redimere. La sofferenza (lo capisce il resistente nonviolento) ha tremende possibilità di educare e trasformare. "Le cose di fondamentale importanza per il popolo non sono assicurate dalla sola ragione, ma devono essere acquistate con la sua sofferenza", affermava Gandhi. Egli aggiunge: "la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla per convertire l'avversario e aprire le sue orecchie, che altrimenti sono chiuse alla voce della ragione".
Il quinto punto riguardante la resistenza nonviolenta è che essa evita non solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente nonviolento non solo rifiuta di sparare all'avversario, ma rifiuta anche di odiarlo. Al centro della nonviolenza sta il principio dell'amore. Il resistente nonviolento sostiene che, nella lotta per la dignità umana, i popoli oppressi del mondo non devono soccombere alla tentazione di divenire pieni di rabbia o di indulgere a campagne di odio. Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l'esistenza dell'odio nell'universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell'odio. Questo può essere fatto soltanto proiettando l'etica dell'amore al centro delle nostre vite.
Parlando di amore, a questo punto, non ci stiamo riferendo a qualche emozione sentimentale o affettiva. Sarebbe privo di senso esortare gli uomini ad amare i loro oppressori in un senso affettivo. Amore in questo contesto significa comprensione, buona volontà redentrice. Qui la lingua greca viene in nostro aiuto. Ci sono tre parole per esprimere amore nel Nuovo Testamento in greco. La prima è eros. Nella filosofia di Platone eros significa l'aspirazione dell'anima al regno del divino. Essa è giunta oggi ad esprimere una specie di amore estetico o romantico. La seconda parola è philia che significa affetto intimo tra amici personali. Philia denota una specie di amore reciproco; la persona ama perché è amata. Quando diciamo di amare i nostri oppositori non ci riferiamo nè ad eros nè a philia; parliamo di un amore che è espresso dal termine greco agape. Agape significa comprensione, buona volontà redentrice per tutti gli uomini. È un amore traboccante, puramente spontaneo, non motivato, ingiustificato e creativo. Non è messo in moto da qualche qualità o funzione del suo oggetto. È l'amore di Dio operante nel cuore umano.
Agape è amore disinteressato. È amore nel quale l'individuo non cerca il proprio bene, ma il bene del prossimo (1 Cor. 10, 24). Agape non comincia col discriminare fra persone degne o indegne, o le qualità che le persone possiedono. Comincia con l'amare gli altri per il loro bene. È un "interesse completamente altruistico per gli altri", che scopre il prossimo in ogni uomo che incontra. Perciò, agape non fa nessuna distinzione fra amico e nemico; si dirige verso entrambi. Se uno ama un individuo semplicemente a causa della benevolenza che riceve, lo ama per i benefici da guadagnare attraverso l'amicizia, piuttosto che per il bene dell'amico. Di conseguenza, il miglior modo di assicurarvi che l'Amore è disinteressato è di provare amore per il prossimo-nemico, dal quale non potete attendervi nessun bene in cambio ma solo ostilità e persecuzione.
Un altro punto fondamentale riguardante l'agape è che nasce dal bisogno dell'altra persona - il suo bisogno di appartenere alla parte migliore della famiglia umana. Il samaritano che aiutò l'ebreo sulla strada di Gerico fu "buono" perché rispose al bisogno umano che gli fu presentato. L'amore di Dio è eterno e non viene meno, perché l'uomo ha bisogno di questo amore.
S. Paolo ci assicura che l'atto di amore della redenzione fu compiuto "mentre eravamo ancora peccatori" - cioè nel momento del nostro più grande bisogno di amore. Poiché la personalità dell'uomo bianco è grandemente distorta dalla segregazione, e la sua anima è grandemente sfregiata, egli ha bisogno dell'amore del nero. Il nero deve amare il bianco, perché il bianco ha bisogno del suo amore per rimuovere le proprie tensioni, insicurezze e paure.
Agape non è amore debole, passivo. E amore in azione. Agape è amore che cerca di preservare e creare comunione. È insistenza sulla comunione anche quando qualcuno cerca di romperla. Agape è disposizione a percorrere qualunque distanza per restaurare la comunione. Non si ferma al primo miglio, ma fa anche il secondo per restaurare la comunione. È disposizione a perdonare, non sette volte, ma settanta volte sette per restaurare la comunione. La croce è l'eterna espressione della distanza alla quale Dio andrà allo scopo di restaurare la comunione infranta. La resurrezione è un simbolo del trionfo di Dio su tutte le forze che cercano di ostacolare la comunione. Lo Spirito Santo è la comunione continua, creante la realtà, che si muove attraverso la storia. Colui che opera contro la comunione, sta operando contro l'intera creazione. Perciò, se rispondo di ricambiare l'odio, non faccio altro che intensificare la spaccatura nella comunione infranta. Posso soltanto sanare la rottura della comunione affrontando l'odio con l'amore. Se affronto l'odio con l'odio, divengo privo di personalità, perché la creazione è così concepita che la mia personalità può realizzarsi soltanto nel contesto della comunione. Booker T. Washington aveva ragione: "Non lasciatevi spingere da nessuno così in basso da giungere al punto di odiarlo". Quando vi spinge così in basso, vi porta ad operare contro la comunione; vi trascina al punto di sfidare la creazione e così diventare privi di personalità.
In conclusione, agape significa il riconoscimento del fatto che tutta la vita è in correlazione. Tutta l'umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello non importa cosa egli mi stia facendo - faccio del male a me stesso. Per esempio, i bianchi spesso rifiutano il sussidio federale all'educazione allo scopo di non concedere ai neri i loro diritti; ma poiché tutti gli uomini sono fratelli, essi non possono escludere i bambini dei neri senza far del male ai propri. Finiscono per danneggiare se stessi, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Perché accade questo? Perché gli uomini sono fratelli. Se mi fai del male, lo fai a te stesso.
L'amore, agape, è l'unico che può ripristinare la comunione, quando è spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunione, di resistere all'ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni dei miei fratelli.
Un sesto fatto fondamentale riguardo alla resistenza nonviolenta è che essa si basa sulla convinzione che l'universo è dalla parte della giustizia. Di conseguenza, il credente nella nonviolenza ha profonda fede nel futuro.
Questa fede è un'altra ragione per cui il resistente nonviolento può accettare la sofferenza senza vendicarsi. Poiché egli sa che nella sua lotta per la giustizia ha un alleato cosmico. È vero che ci sono devoti credenti nella nonviolenza che trovano difficile credere in un Dio personale. Ma anche queste persone credono nell'esistenza di qualche forza creativa che lavora per la totalità universale. Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c'è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.
Avevo anche imparato che l'inseparabile gemella dell'ingiustizia razziale era l'ingiustizia economica. Sebbene provenissi da una famiglia economicamente sicura e relativamente benestante, non ho mai potuto togliermi di mente l'insicurezza economica di molti miei compagni e la tragica povertà di coloro che mi vivevano intorno. Durante gli ultimi anni dell'adolescenza lavorai per due estati, contro la volontà di mio padre (egli non ha mai voluto che mio fratello ed io lavorassimo fra gente bianca a causa delle condizioni oppressive), in una fabbrica che assumeva neri e bianchi. Qui vidi di prima mano l'ingiustizia economica e capii che i bianchi poveri erano sfruttati proprio come i neri. Attraverso queste precoci esperienze crebbi profondamente conscio della verità delle ingiustizie nella nostra società.
Così quando nel 1944 entrai come matricola al Collegio Morehouse di Atlanta, il mio interesse per l'ingiustizia razziale ed economica era già consistente. Durante gli studi al Morehouse lessi per la prima volta il Saggio sulla disobbedienza civile di Thoreau. Affascinato dall'idea del rifiuto di cooperare con un sistema ingiusto, fui colpito così profondamente che rilessi l'opera diverse volte. Questo fu il mio primo contatto intellettuale con la teoria della resistenza nonviolenta.
La filosofia sociale Comunque, finché non entrai al Seminario teologico Crozer, nel 1948, non cominciai una seria ricerca intellettuale di un metodo per eliminare il male sociale. Sebbene il mio maggior interesse fosse nel campo della teologia e della filosofia, trascorsi molto tempo a leggere le opere dei grandi filosofi sociali. Una delle mie prime letture fu Cristianesimo e crisi sociale di Walter Rauschenbusch, che lasciò un'impronta indelebile nel mio pensiero col darmi una base teologica per l'interesse ai problemi sociali, che era già sorto in me come risultato delle mie prime esperienze.
Naturalmente, vi erano punti sui quali dissentivo da Rauschenbusch. Sentivo che egli era stato vittima del "culto dell'inevitabile progresso" proprio del XIX secolo, che lo portava a un superficiale ottimismo nei riguardi della natura umana. Per di più, egli giungeva pericolosamente vicino all'identificazione del Regno di Dio con un particolare sistema sociale ed economico - una tendenza che non dovrebbe mai trovarsi nella Chiesa. Ma, a dispetto di queste manchevolezze, Rauschenbusch aveva reso un grande servizio alla Chiesa Cristiana sostenendo che il Vangelo si occupa dell'uomo intero; non solo della sua anima ma del suo corpo, non solo del suo benessere spirituale ma del suo benessere materiale. Dopo la lettura di Rauschenbusch, ho sempre conservato la convinzione che qualsiasi religione, che professa l'interesse per le anime degli uomini e non per le condizioni sociali ed economiche che sfregiano l'anima, è una religione spiritualmente moribonda in attesa del giorno della sepoltura. È stato affermato giustamente: "Una religione che finisce con l'individuo, muore".
Dopo aver letto Rauschenbusch, mi volsi a un serio studio delle teorie sociali ed etiche dei grandi filosofi, da Platone e Aristotele fino a Rousseau, Hobbes, Bentham, Mill e Locke. Tutti questi maestri stimolarono il mio pensiero - quale che fosse - e, mentre trovavo affermazioni da discutere in ciascuno di essi, nondimeno imparai moltissimo dal loro studio.
Lo studio dei marxismo Durante le vacanze di Natale del 1949 decisi di impiegare il mio tempo libero leggendo Marx per tentare di comprendere l'attrazione del comunismo su molte persone. Per la prima volta esaminai attentamente Il Capitale e il Manifesto dei comunisti. Lessi anche alcuni saggi critici sul pensiero di Marx e Lenin. Durante la lettura di questi scritti di comunisti, tracciai certe conclusioni che sono rimaste in me fino ad oggi come convinzioni.
Anzitutto, respinsi la loro interpretazione materialistica della storia. Il comunismo, dichiaratamente laico e materialista, non ha posto per Dio.
Questo non ho mai potuto accettarlo perché, come cristiano, credo nell'esistenza in questo universo di un potere personale creativo, che costituisce il fondamento e l'essenza di tutta la realtà - un potere che non può essere spiegato in termini materialistici. La storia è fondamentalmente governata dallo spirito, non dalla materia. In secondo luogo, dissentivo fortemente dal relativismo etico del comunismo. Poiché per i comunisti non c'è un governo divino, nè un ordine morale assoluto, non esistono principi fissi e immutabili; di conseguenza quasi tutto - forza, violenza, assassinio, menzogna - è un mezzo giustificabile per raggiungere il fine ultimo. Questo genere di relativismo era ripugnante per me. Fini costruttivi non possono mai dare assoluta giustificazione morale a mezzi distruttivi, per la ragione che, in ultima analisi, il fine è preesistente nel mezzo. In terzo luogo, ero contrario al totalitarismo politico del comunismo. Nel comunismo l'individuo finisce per essere soggetto allo Stato. In verità, i marxisti sostengono di solito che lo Stato è una realtà "provvisoria", che deve essere eliminata quando sorge la società senza classi; ma lo Stato, finché è in vita, è il fine e l'uomo soltanto un mezzo verso quel fine. E se i cosiddetti diritti o libertà di ogni uomo fanno opposizione al raggiungimento di quel fine, essi vengono semplicemente spazzati via. La sue libertà di espressione, la sua libertà di votare, di ascoltare le notizie che preferisce o di scegliere i libri, vengono tutte limitate. Nel comunismo, difficilmente l'uomo diventa più di un ingranaggio privo di personalità nella ruota dello Stato.
Questa negazione della libertà individuale era riprovevole secondo me. Sono convinto, ora come allora, che l'uomo è un fine in quanto è figlio di Dio.
L'uomo non è fatto per lo Stato; lo Stato è fatto per l'uomo. Privare l'uomo della libertà significa relegarlo alla condizione di cosa, piuttosto che elevarlo allo stato di persona. L'uomo non deve mai essere trattato come un mezzo al servizio dello Stato, ma sempre come un fine in se stesso.
La sfida del comunismo Tuttavia, a dispetto del fatto che la mia risposta al comunismo era ed è negativa e che lo consideravo fondamentalmente dannoso, c'erano punti nei quali lo trovavo stimolante. Il defunto Arcivescovo di Canterbury, William Temple, si riferiva al comunismo come ad un'eresia cristiana. Con ciò egli intendeva dire che il comunismo ha afferrato certe verità che sono parti essenziali della concezione cristiana, ma che ha unito ad esse concetti e pratiche che nessun cristiano potrebbe mai accettare o professare. Il comunismo sfidava il defunto Arcivescovo e dovrebbe sfidare ogni cristiano - come sfidava me - ad un crescente interesse per la giustizia sociale. Pur con le sue false ipotesi e i cattivi metodi, il comunismo crebbe come una protesta contro le sofferenze dei poveri. Il comunismo in teoria metteva in evidenza una società senza classi e l'interesse per la giustizia sociale, sebbene il mondo sappia da una dolorosa esperienza che in pratica ha creato nuove classi e un nuovo genere di ingiustizia. Il cristiano dovrebbe sempre essere stimolato da qualsiasi protesta contro l'ingiusto trattamento dei poveri, poiché il Cristianesimo è esso stesso una tale protesta, in nessun luogo espressa più eloquentemente che nelle parole di Gesù: "Lo Spirito del Signore è su di me, perché Egli mi ha consacrato a predicare il Vangelo ai poveri; Egli mi ha inviato a sanare i sofferenti, e ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione della vista ai ciechi, a mettere in libertà coloro che sono oppressi, a proclamare l'anno di grazia dei Signore".
Cercai anche risposte sistematiche alla critica di Marx della moderna cultura borghese. Egli presentava il capitalismo essenzialmente come una lotta fra i proprietari dei mezzi di produzione ed i lavoratori, che Marx considerava i veri produttori. Marx interpretava le forze economiche come il processo dialettico mediante il quale la società muoveva dal feudalesimo al socialismo attraverso il capitalismo, essendo la lotta tra classi economiche dagli interessi inconciliabili il motore principale di questo movimento storico. Ovviamente questa teoria non teneva conto di numerosi e significativi aspetti - politici, economici, morali, religiosi e psicologici - che hanno giocato un ruolo vitale nel foggiare la costellazione di istituzioni e di idee, nota oggi come la "civiltà occidentale". Inoltre, era una concezione invecchiata nel senso che il capitalismo descritto da Marx presentava una somiglianza solo parziale col capitalismo che conosciamo oggi in questo paese.
Critica dei comunismo e del capitalismo Ma, nonostante le deficienze della sua analisi, Marx aveva sollevato alcune questioni fondamentali. Fin dalla prima adolescenza fui profondamente turbato dall'abisso esistente fra la ricchezza superflua e la povertà abietta, e la lettura di Marx mi rese ancor più consapevole di questo abisso. Sebbene il capitalismo americano moderno avesse grandemente ridotto tale divario attraverso riforme sociali, c'era ancora bisogno di una migliore distribuzione della ricchezza. Inoltre, Marx aveva rivelato il pericolo della ricchezza e del profitto come unica base di un sistema economico: il capitalismo corre sempre il pericolo di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere. Noi siamo inclini a giudicare il successo dall'indice dei nostri salari o dalle dimensioni delle nostre automobili, piuttosto che dalla qualità del nostro servizio e delle relazioni verso l'umanità - in questo modo il capitalismo può portare a un materialismo pratico, che è dannoso quanto il materialismo insegnato dal comunismo.
In breve, ho letto Marx come lessi tutti gli autorevoli pensatori storici - da un punto di vista dialettico, combinando un parziale "sì" ed un parziale "no". In quanto Marx ha posto un materialismo metafisico, un relativismo etico e un totalitarismo che strangola, ho risposto con un deciso "no"; ma in quanto ha mostrato la debolezza del capitalismo tradizionale, ha contribuito allo sviluppo di una determinata autocoscienza nelle masse e ha stimolato la coscienza sociale delle Chiese cristiane, ho risposto con un preciso "sì".
La lettura di Marx mi convinse anche che la verità non si trova nè nel marxismo nè nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verità parziale. Storicamente il capitalismo non riuscì a vedere la verità nell'impresa collettiva e il marxismo non riuscì a vederla nell'iniziativa privata. Il capitalismo del XIX secolo non capì che la vita è anche sociale e il marxismo non comprese e ancora non comprende che la vita è anche individuale e personale. Il Regno di Dio non è nè la tesi dell'iniziativa individuale nè l'antitesi dell'impresa collettiva, ma la sintesi che riconcilia le verità di entrambe.
Durante la mia permanenza al Crozer, venni anche a contatto per la prima volta con la posizione pacifista attraverso una conferenza del Dr. A. J.
Muste. Fui profondamente commosso dal discorso del Dr. Muste, ma per niente convinto della possibilità di mettere in pratica la sua posizione. Come la maggior parte degli studenti del Crozer, sentivo che la guerra, mentre non poteva mai essere un bene positivo o assoluto, poteva servire come un bene negativo nel senso di impedire la diffusione e la crescita di una forza malvagia. La guerra, per quanto orribile, poteva essere preferibile alla resa a un sistema totalitario nazista, fascista o comunista.
Lo studio di Nietzsche e di Gandhi Durante questo periodo avevo quasi disperato del potere dell'amore di risolvere i problemi sociali. Forse la mia fede nell'amore era temporaneamente scossa dalla filosofia di Nietzsche. Avevo letto parti della Genealogia della morale e tutta la Volontà di potenza. L'esaltazione di Nietzsche della potenza - secondo la sua teoria tutta la vita esprime la volontà di potenza - era una conseguenza del suo disprezzo per la morale comune. Egli attaccava l'intera etica ebraico-cristiana - con le sue virtù di pietà e umiltà, il suo ascetismo e il suo atteggiamento verso la sofferenza - come la glorificazione della debolezza, poiché essa trasforma in virtù la necessità e l'impotenza. Egli mirava allo sviluppo di un superuomo che superasse l'uomo come l'uomo ha superato la scimmia.
Allora, una domenica pomeriggio, andai a Philadelphia per ascoltare un sermone del Dr. Mordecai Johnson, presidente della Howard University. Egli si trovava là per predicare per la "Fellowship House" di Philadelphia. Il Dr. Johnson era appena tornato da un viaggio in India e, con mio grande interesse, parlò della vita e dell'insegnamento del Mahatma Gandhi. Il suo messaggio era così profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi.
Come la maggior parte delle persone, avevo sentito parlare di Gandhi, ma non lo avevo mai studiato seriamente. Come procedetti nella lettura, fui profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta. Fui particolarmente commosso dalla "marcia del sale" verso il mare e dai suoi numerosi digiuni. Tutto il concetto di Satyagraha (Satya è verità che equivale ad amore e agraha è forza; Satyagraha, perciò, significa forza della verità o forza dell'amore) era profondamente significativo per me.
Via via che studiavo più profondamente la filosofia di Gandhi, il mio scetticismo riguardo la potenza dell'amore gradualmente diminuì e giunsi, per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma sociale. Prima di leggere Gandhi, avevo quasi concluso che l'etica di Gesù fosse efficace soltanto nei rapporti individuali. La filosofia del "porgi l'altra guancia" e dell'"amate i vostri nemici" sentivo che era valida solo quando gli individui erano in conflitto con altri individui; quando invece erano in conflitto gruppi razziali e nazioni, sembrava necessario un comportamento più realistico. Ma dopo aver letto Gandhi, vidi che ero completamente in errore.
Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l'etica dell'amore di Gesù al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace. L'amore, per Gandhi, era uno strumento potente per operare un mutamento sociale collettivo. Fu in questa insistenza gandhiana sull'amore e la nonviolenza che scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti mesi. La soddisfazione intellettuale e morale che non avevo saputo ricavare dall'utilitarismo di Bentham e Mill, dai metodi rivoluzionari di Marx e Lenin, dalla teoria del contratto sociale di Hobbes, dall'ottimismo del "ritorno alla natura" di Rosseau e dalla filosofia del superuomo di Nietzsche, la trovai nella filosofia della resistenza nonviolenta di Gandhi.
Giunsi a sentire che questo era l'unico metodo, moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la libertà.
La lettura di Reinhold Niebuhr La mia odissea intellettuale verso la nonviolenza non finì qui. Durante il mio ultimo anno nella scuola teologica, cominciai a leggere le opere di Reinhold Niebuhr. Mi attraevano gli elementi profetici e realistici nell'appassionato stile di Niebuhr e il profondo pensiero; e mi innamorai tanto della sua etica sociale che quasi caddi nella trappola di accettare acriticamente tutto ciò che egli scriveva.
Circa in questo periodo lessi la critica di Niebuhr alla posizione pacifista. Niebuhr stesso in passato era stato membro del movimento pacifista. Per diversi anni era stato presidente del Movimento per la Riconciliazione. La sua rottura con il pacifismo avvenne all'inizio degli anni trenta, e la prima completa esposizione della sua critica del pacifismo si trovò in Uomo morale e società immorale. Qui egli argomentava che non c'era alcuna intrinseca differenza morale fra la resistenza violenta e nonviolenta. Le conseguenze sociali dei due metodi erano differenti, egli sosteneva, ma le differenze erano di grado piuttosto che di genere. Più tardi Niebuhr cominciò a mettere in evidenza la irresponsabilità di confidare sulla resistenza nonviolenta, quando non c'era alcun fondamento per credere che essa avrebbe avuto successo nell'impedire la diffusione della tirannide totalitaria. Essa potrebbe avere successo, egli sosteneva, soltanto se i gruppi contro cui tale resistenza avveniva possedessero in qualche misura una coscienza morale, come era il caso della lotta di Gandhi contro gli inglesi. Il rifiuto finale del pacifismo, da parte di Niebuhr, era basato principalmente sulla concezione dell'uomo. Egli sosteneva che il pacifismo non era in grado di rendere giustizia alla dottrina della Riforma della giustificazione per fede, sostituendo ad essa un perfezionismo settario che crede "che la grazia divina realmente solleva gli uomini fuori dalle immorali contraddizioni della storia e pone l'uomo al di sopra dei peccati del mondo".
In un primo momento, la critica del pacifismo, fatta da Niebuhr, mi lasciò in uno stato di confusione. Via via che continuai a leggere, nondimeno, giunsi a vedere sempre più chiaramente le deficienze della sua posizione.
Per esempio, molte sue affermazioni rivelavano che egli interpretava il pacifismo come una specie di non-resistenza passiva al male, che manifestava ingenua fiducia nel potere dell'amore. Ma questo era un grande fraintendimento. Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero pacifismo non è non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al male.
Fra le due posizioni c'è enorme differenza. Gandhi fece resistenza al male con altrettanto vigore e potenza del resistente violento, ma egli resistette con l'amore al posto dell'odio. Il vero pacifismo non è ingenua sottomissione al potere del male, come sostiene Niebuhr. È piuttosto un coraggioso confronto col male attraverso la potenza dell'amore, nella convinzione che è meglio essere chi riceve violenza e non chi la infligge, dal momento che quest'ultimo moltiplica soltanto l'esistenza della violenza e del dolore nell'universo, mentre il primo può sviluppare un senso di vergogna nell'avversario e con ciò determinare una trasformazione e un cambiamento del cuore.
Aspetti positivi di Niebuhr A dispetto del fatto che trovai molte cose che lasciavano a desiderare nella filosofia di Niebuhr, c'erano diversi punti nei quali egli influenzò il mio pensiero in maniera costruttiva. Il grande contributo di Niebhur alla teologia contemporanea consiste nel suo rifiuto del falso ottimismo, caratteristico di una grande parte del liberalismo protestante, senza cadere nell'anti-razionalismo del teologo continentale Karl Barth o nel semi-fondamentalismo di altri teologi dialettici. Inoltre, Niebhur studia con straordinario acume la natura umana, specialmente il comportamento delle nazioni e dei gruppi sociali. Egli è acutamente consapevole della complessità delle motivazioni umane e della relazione fra moralità e potere. La sua teologia è un persistente richiamo della realtà del peccato ad ogni livello dell'esistenza dell'uomo. Questi elementi nel pensiero di Niebhur mi aiutarono a riconoscere le illusioni di un superficiale ottimismo concernente la natura umana, e i pericoli di un falso idealismo. Mentre credevo ancora nella potenzialità di bene, insita nell'uomo, Niebhur mi fece altresì comprendere la sua potenzialità di male. Inoltre, Niebhur mi aiutò a riconoscere la complessità delle implicazioni sociali dell'uomo e l'evidente realtà del male collettivo.
Sentivo che molti pacifisti non riuscivano a vedere questo. Quasi tutti avevano un ottimismo infondato riguardo all'uomo e tendevano inconsciamente verso l'ipocrisia. La mia rivolta contro questi atteggiamenti, sotto l'influsso di Niebhur, spiega il fatto che - a dispetto della mia forte inclinazione verso il pacifismo - non entrai mai a far parte di un'organizzazione pacifista. Dopo aver letto Niebhur, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi morali che i non-pacifisti cristiani affrontano.
All'Università di Boston Lo stadio successivo del mio pellegrinaggio intellettuale alla nonviolenza venne durante i miei studi per il dottorato all'Università di Boston. Qui ebbi l'occasione di parlare a molti esponenti della nonviolenza, sia studenti sia professori ospiti dell'Università. La Scuola di teologia dell'Università di Boston, sotto l'influenza di Dean Walter Muelder e del professor Allen Knight Chalmers, aveva una profonda simpatia per il pacifismo. Sia Dean Muelder che il Dr. Chalmers avevano una passione per la giustizia sociale, che derivava non da un superficiale ottimismo, ma da una fede profonda nelle possibilità degli esseri umani quando permettono a se stessi di divenire cooperatori di Dio. Fu all'Università di Boston che giunsi a comprendere che Niebhur aveva sopravvalutato la corruzione della natura umana. Il suo pessimismo riguardo la natura umana non era bilanciato da un ottimismo concernente la natura divina. Egli era così immerso a diagnosticare la malattia del peccato nell'uomo, che aveva trascurato la cura della grazia.
Studiai filosofia e teologia all'Università di Boston sotto la guida di Edgar S. Brightman e L. Harold De Wolf. Entrambi stimolarono moltissimo il mio pensiero. Fu principalmente sotto questi insegnanti che studiai la filosofia personalistica - la teoria che la soluzione del significato della realtà ultima si trova nella personalità. Questo idealismo personale rimane tuttora la mia fondamentale posizione filosofica. L'insistenza del personalismo che soltanto la personalità - finita e infinita - è in definitiva reale rafforzò in me due convinzioni: mi diede un fondamento metafisica e filosofico per l'idea di un Dio personale, e mi diede una base metafisica per affermare la dignità e il valore di ogni personalità umana.
Lettura di Hegel e conclusione degli studi Poco prima della morte del Dr. Brightman, cominciai a studiare con lui la filosofia di Hegel. Sebbene il corso fosse principalmente uno studio dell'opera monumentale di Hegel, Fenomenologia dello Spirito, passai il mio tempo libero leggendo la sua Filosofia della storia e la Filosofia del diritto. C'erano punti nella filosofia di Hegel coi quali mi trovavo in forte disaccordo. Per esempio, il suo idealismo assoluto era, secondo me, razionalmente imperfetto, poiché tendeva ad annullare i molti nell'uno. Ma c'erano altri aspetti del suo pensiero che trovai stimolanti. La sua affermazione che "la verità è il tutto" mi guidò a un metodo filosofico di coerenza razionale. La sua analisi del processo dialettico, a dispetto delle sue manchevolezza, mi aiutò a capire che lo sviluppo avviene attraverso la lotta. Nel 1954 terminai la mia educazione formale con tutte queste forze intellettuali relativamente divergenti, orientandomi verso una positiva filosofia sociale. Uno degli aspetti principali di questa filosofia era la convinzione che la resistenza nonviolenta era uno dei mezzi più potenti accessibili alla gente oppressa nella sua ricerca di giustizia sociale. In quel tempo, tuttavia, avevo semplicemente una comprensione e un apprezzamento intellettuale di questa posizione, senza nessuna ferma decisione di metterla in pratica in una situazione reale.
Quando mi recai a Montgomery come pastore, non avevo la minima idea che più tardi mi sarei trovato coinvolto in una crisi in cui la resistenza nonviolenta sarebbe stata applicabile. Non fui io ad iniziare la protesta nè a suggerirla. Semplicemente risposi alla richiesta di un portavoce della popolazione. Quando la protesta cominciò, la mia mente, consciamente o inconsciamente, fu ricondotta al Discorso della Montagna, con i suoi sublimi insegnamenti sull'amore, e al metodo gandhiano della resistenza nonviolenta.
Col passare dei giorni, giunsi a vedere sempre più chiaramente il potere della nonviolenza. Vivendo attraverso la reale esperienza della protesta, la nonviolenza divenne più di un metodo a cui davo il mio assenso intellettualmente; essa divenne dedizione ad una forma di vita. Molte questioni che non avevo chiarito intellettualmente riguardo alla nonviolenza furono risolte nella sfera dell'azione pratica.
Sei aspetti fondamentali della nonviolenza Dal momento che la filosofia della nonviolenza ha avuto un tale ruolo positivo nel movimento di Montgomery, può essere saggio volgersi ad una breve discussione di alcuni aspetti fondamentali di questa filosofia.
In primo luogo, si deve sottolineare che la resistenza nonviolenta non è un metodo per codardi; essa è autentica resistenza. Se uno usa questo metodo perché ha paura o semplicemente è privo degli strumenti di violenza, costui non è un vero nonviolento. Questa è la ragione per cui Gandhi spesso diceva che se la viltà è l'unica alternativa alla violenza, è meglio combattere. Egli fece questa affermazione conscio del fatto che c'è sempre un'altra alternativa: non è necessario che un individuo o un gruppo si sottomettano a qualche ingiustizia, nè che usino la violenza per riparare tale ingiustizia; c'è la via della resistenza nonviolenta. Questa è in definitiva la via dell'uomo forte. Non è un metodo di stagnante passività. La frase "resistenza passiva" offre spesso la falsa impressione che questo è una sorta di "metodo del far niente", in cui il resistente accetta il male quietamente e passivamente. Ma nessuna affermazione è più lontana di questa dalla verità. Perché, mentre il resistente nonviolento è passivo nel senso che non è fisicamente aggressivo verso il suo avversario, la sua mente e le sue emozioni sono sempre attive, costantemente cercando di persuadere l'avversario che egli è nel torto. Questo metodo è passivo fisicamente, ma fortemente attivo spiritualmente. Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male.
Un secondo fatto fondamentali che caratterizza la nonviolenza è che essa non cerca di sconfiggere o umiliare l'avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione. Il resistente nonviolento deve spesso esprimere la sua protesta attraverso la non-cooperazione o il boicottaggio, ma egli comprende che questi non sono fini in se stessi; essi sono semplicemente mezzi per svegliare un senso di vergogna morale nell'avversario. Il fine è la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza è la creazione della comunità nell'amore, mentre la conseguenza della violenza è la tragica amarezza.
Una terza caratteristica di questo metodo è che l'attacco è diretto contro le forze del male piuttosto che contro le persone alle quali succede di stare facendo il male. È il male che il resistente nonviolento cerca di sconfiggere, non le persone ingannate dal male. Se sta combattendo l'ingiustizia razziale, il resistente nonviolento ha l'intuito di capire che la tensione fondamentale non è fra le razze. Come mi piace dire alla gente di Montgomery: "La tensione in questa città non è fra la gente bianca e quella nera. La tensione è, in fondo, tra giustizia e ingiustizia, fra le forze della luce e le forze delle tenebre. E se ci sarà una vittoria, sarà una vittoria non semplicemente per cinquantamila neri, ma una vittoria per la giustizia e le forze della luce. Noi siamo fuori per sconfiggere l'ingiustizia e non uomini bianchi che eventualmente siano ingiusti".
Un quarto punto che caratterizza la resistenza nonviolenta è una disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le percosse dell'avversario senza restituirle. "Fiumi di sangue devono forse scorrere prima che conquistiamo la libertà, ma deve essere sangue nostro", diceva Gandhi ai suoi compatrioti. Il resistente nonviolento è disposto ad accettare la violenza se necessario, ma mai ad infliggerla. Non cerca di evitare il carcere. Se andare in prigione è necessario, egli entra in prigione "come uno sposo entra nella camera della sposa".
Qualcuno potrebbe chiedere giustamente: "Qual è la giustificazione del resistente nonviolento per questa prova alla quale invita gli uomini, per questa applicazione politica di massa dell'antica dottrina di offrire l'altra guancia?". La risposta si trova nel riconoscimento che la sofferenza non meritata è capace di redimere. La sofferenza (lo capisce il resistente nonviolento) ha tremende possibilità di educare e trasformare. "Le cose di fondamentale importanza per il popolo non sono assicurate dalla sola ragione, ma devono essere acquistate con la sua sofferenza", affermava Gandhi. Egli aggiunge: "la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla per convertire l'avversario e aprire le sue orecchie, che altrimenti sono chiuse alla voce della ragione".
Il quinto punto riguardante la resistenza nonviolenta è che essa evita non solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente nonviolento non solo rifiuta di sparare all'avversario, ma rifiuta anche di odiarlo. Al centro della nonviolenza sta il principio dell'amore. Il resistente nonviolento sostiene che, nella lotta per la dignità umana, i popoli oppressi del mondo non devono soccombere alla tentazione di divenire pieni di rabbia o di indulgere a campagne di odio. Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l'esistenza dell'odio nell'universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell'odio. Questo può essere fatto soltanto proiettando l'etica dell'amore al centro delle nostre vite.
Parlando di amore, a questo punto, non ci stiamo riferendo a qualche emozione sentimentale o affettiva. Sarebbe privo di senso esortare gli uomini ad amare i loro oppressori in un senso affettivo. Amore in questo contesto significa comprensione, buona volontà redentrice. Qui la lingua greca viene in nostro aiuto. Ci sono tre parole per esprimere amore nel Nuovo Testamento in greco. La prima è eros. Nella filosofia di Platone eros significa l'aspirazione dell'anima al regno del divino. Essa è giunta oggi ad esprimere una specie di amore estetico o romantico. La seconda parola è philia che significa affetto intimo tra amici personali. Philia denota una specie di amore reciproco; la persona ama perché è amata. Quando diciamo di amare i nostri oppositori non ci riferiamo nè ad eros nè a philia; parliamo di un amore che è espresso dal termine greco agape. Agape significa comprensione, buona volontà redentrice per tutti gli uomini. È un amore traboccante, puramente spontaneo, non motivato, ingiustificato e creativo. Non è messo in moto da qualche qualità o funzione del suo oggetto. È l'amore di Dio operante nel cuore umano.
Agape è amore disinteressato. È amore nel quale l'individuo non cerca il proprio bene, ma il bene del prossimo (1 Cor. 10, 24). Agape non comincia col discriminare fra persone degne o indegne, o le qualità che le persone possiedono. Comincia con l'amare gli altri per il loro bene. È un "interesse completamente altruistico per gli altri", che scopre il prossimo in ogni uomo che incontra. Perciò, agape non fa nessuna distinzione fra amico e nemico; si dirige verso entrambi. Se uno ama un individuo semplicemente a causa della benevolenza che riceve, lo ama per i benefici da guadagnare attraverso l'amicizia, piuttosto che per il bene dell'amico. Di conseguenza, il miglior modo di assicurarvi che l'Amore è disinteressato è di provare amore per il prossimo-nemico, dal quale non potete attendervi nessun bene in cambio ma solo ostilità e persecuzione.
Un altro punto fondamentale riguardante l'agape è che nasce dal bisogno dell'altra persona - il suo bisogno di appartenere alla parte migliore della famiglia umana. Il samaritano che aiutò l'ebreo sulla strada di Gerico fu "buono" perché rispose al bisogno umano che gli fu presentato. L'amore di Dio è eterno e non viene meno, perché l'uomo ha bisogno di questo amore.
S. Paolo ci assicura che l'atto di amore della redenzione fu compiuto "mentre eravamo ancora peccatori" - cioè nel momento del nostro più grande bisogno di amore. Poiché la personalità dell'uomo bianco è grandemente distorta dalla segregazione, e la sua anima è grandemente sfregiata, egli ha bisogno dell'amore del nero. Il nero deve amare il bianco, perché il bianco ha bisogno del suo amore per rimuovere le proprie tensioni, insicurezze e paure.
Agape non è amore debole, passivo. E amore in azione. Agape è amore che cerca di preservare e creare comunione. È insistenza sulla comunione anche quando qualcuno cerca di romperla. Agape è disposizione a percorrere qualunque distanza per restaurare la comunione. Non si ferma al primo miglio, ma fa anche il secondo per restaurare la comunione. È disposizione a perdonare, non sette volte, ma settanta volte sette per restaurare la comunione. La croce è l'eterna espressione della distanza alla quale Dio andrà allo scopo di restaurare la comunione infranta. La resurrezione è un simbolo del trionfo di Dio su tutte le forze che cercano di ostacolare la comunione. Lo Spirito Santo è la comunione continua, creante la realtà, che si muove attraverso la storia. Colui che opera contro la comunione, sta operando contro l'intera creazione. Perciò, se rispondo di ricambiare l'odio, non faccio altro che intensificare la spaccatura nella comunione infranta. Posso soltanto sanare la rottura della comunione affrontando l'odio con l'amore. Se affronto l'odio con l'odio, divengo privo di personalità, perché la creazione è così concepita che la mia personalità può realizzarsi soltanto nel contesto della comunione. Booker T. Washington aveva ragione: "Non lasciatevi spingere da nessuno così in basso da giungere al punto di odiarlo". Quando vi spinge così in basso, vi porta ad operare contro la comunione; vi trascina al punto di sfidare la creazione e così diventare privi di personalità.
In conclusione, agape significa il riconoscimento del fatto che tutta la vita è in correlazione. Tutta l'umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello non importa cosa egli mi stia facendo - faccio del male a me stesso. Per esempio, i bianchi spesso rifiutano il sussidio federale all'educazione allo scopo di non concedere ai neri i loro diritti; ma poiché tutti gli uomini sono fratelli, essi non possono escludere i bambini dei neri senza far del male ai propri. Finiscono per danneggiare se stessi, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Perché accade questo? Perché gli uomini sono fratelli. Se mi fai del male, lo fai a te stesso.
L'amore, agape, è l'unico che può ripristinare la comunione, quando è spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunione, di resistere all'ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni dei miei fratelli.
Un sesto fatto fondamentale riguardo alla resistenza nonviolenta è che essa si basa sulla convinzione che l'universo è dalla parte della giustizia. Di conseguenza, il credente nella nonviolenza ha profonda fede nel futuro.
Questa fede è un'altra ragione per cui il resistente nonviolento può accettare la sofferenza senza vendicarsi. Poiché egli sa che nella sua lotta per la giustizia ha un alleato cosmico. È vero che ci sono devoti credenti nella nonviolenza che trovano difficile credere in un Dio personale. Ma anche queste persone credono nell'esistenza di qualche forza creativa che lavora per la totalità universale. Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c'è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.