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Libia: tra contraddizioni, menzogne e ipocrisie

Dinanzi a quanto sta accadendo in Libia vorrei fare alcune piccole considerazioni, partendo da percorsi già visti in passato e dalle consuete contraddizioni e ambiguità dei paesi occidentali.

Di fronte ai cambiamenti che si stanno verificando nel Nord Africa, punta di un iceberg molto più vasto, e a quanto sta accadendo in Libia, così profondamente diverso da altre rivoluzioni, ma non proprio dissimile da quanto sta accadendo nel Bahrein e in Costa d'Avorio, abbiamo dimostrato la nostra miopia geopolitica, finalizzata solo alla salvaguardia dello status quo e dei nostri interessi, incapaci di comprendere a articolare azioni di mediazione, ma solo in grado di mettere in campo azioni guerra.


L'interesse umanitario

La prima ambiguità che spesso usiamo per giustificare un intervento armato è il concetto di “interesse umanitario”.

Se da un lato sarebbe davvero auspicabile una sincera attenzione, ma non militare, dell'Europa e dell'Occidente per quanto concerne la violazione dei diritti umani, le stragi di innocenti, dall'altra va constatato come tale attenzione non sia generale, a trecentosessanta gradi, ma semplicemente finalizzata a quelle regioni che hanno un rilevante interesse geopolitico o economico, e, sopratutto manchi di quella prospettiva a lunga gettata, riducendosi semplicemente a ratificare un intervento militare, magari con una tardiva copertura giuridica dell'ONU.

L'interesse umanitario assume quindi il “sospetto” di essere semplicemente “un pretesto”, inquinando così anche ogni più nobile intenzione.

D'altra parte se ben guardiamo la nostra coscienza è capace di tollerare veri e propri genocidi in Africa, di accettare le politiche di apartheid di Israele, per poi decidere interventi militari “umanitari” in quelle regione che, guarda caso, hanno sempre un interesse geopolitico e/o economico fondamentale per l'Occidente.

Quanto, ad esempio sta accadendo proprio in queste ore in Costa d'Avorio, in cui una transizione di regime si sta consumando in una guerra civile, senza che i governi occidentali vi prestino attenzione, risulta particolarmente emblematico.

Quando la guerra umanitaria ci viene presentata come "inevitabile"

Dinanzi all'emergere di un conflitto sempre, fin dalla seconda guerra mondiale, i paesi occidentali hanno sempre atteso l'incancrenirsi delle situazioni fino ad arrivare al punto al quale l'intervento armato, che in ogni caso è sempre distruzione e morte di civili (siano quelli amici o nemici, visto che il binomio amico/nemico aiuta molto bene a controllare le persone e ad evitare che sviluppino un pensiero autonomo), appare come l'unica strada possibile per salvare vite umane, amplificata da un contesto mediatico che facilmente riesce a condizionare il nostro potere di valutazione.

Ci accorgiamo del disastro umanitario quando questo ormai è arrivato ad un punto estremo, creando le condizioni per cui la guerra sembra rimanere l'unico strumento possibile e i militari come gli unici dotati di un potere e di mezzi salvifici.

Non credo che questo sia semplicemente un deficit di valutazione geopolitica, credo realmente che l'interesse delle potenze economiche sia sempre finalizzato all'utilizzo della forza militare per la risoluzione delle controversie internazionali, alla faccia del nostro articolo 11 della Costituzione.

E' successo in Kosovo, si è ripetuto in Iraq, in Afghanistan... e adesso in Libia (ovviamente ci siamo dimenticati necessariamente della Cecenia, del Kurdistan, della Palestina, della Cina, dell'Arabia Saudita...)... come se, dinanzi alla complessità dei conflitti, ancora una volta, come sempre, scegliessimo la strada delle scorciatoie, che generalmente non risolvono il problema.

Il fascino discreto della "guerra umanitaria"

Quando ormai la situazione è stata lasciata incancrenire, con una certa consapevole volontà, è facile presentare all'opinione pubblica come sia inevitabile e salvifico l'intervento militare.

Chi di noi ha mai pensato che si potessero essere altre opzioni adesso in Libia, come in allora Kosovo, in Iraq, in Afghanistan?

Tutti noi siamo stati condotti a ritenere che, sebbene come ultima ratio, non potesse essere fatto niente di diverso per proteggere le popolazioni che si sono ribellate ad un regime.

La contraddizione e l'ambiguità sta nel fatto che è lecito pensare di essere giunti a quella ultima ratio solo se si è cercato di percorrere anche altre strade.

Né in questo conflitto, né nel passato, raramente si è cercato di dare sostegno forte ai percorsi diplomatici e alle politiche di interposizione e mediazione dei conflitti, che pure sono l'unica condizione per non devastare un territorio e non farlo precipitare nella guerra civile.

E'' interessante l'articolo L'attrazione fatale della guerra giusta di Tzvetan Todorov, pubblicato su "La Repubblica" del 23 marzo 2011, perché, in qualche modo, ci stiamo assuefacendo sempre di più ai messaggi che ci vengono inviati e che, come tali, sembrano ineluttabilmente reali. Ed il messaggio è sempre lo stesso: siamo arrivati ad un punto per cui è inevitabile intervenire e bombardare.

Bombe per proteggere vite umane! Questa è la ricetta dell'occidente.

Ma dove erano i media e i governi nelle settimane precedenti, quando era ancora possibile rafforzare politicamente i popoli insorti e al tempo stesso isolare i governi dittatoriali?

Ma dinanzi a questa semplificazione del messaggio ecco che la guerra, proposta sempre come odiosa ed ultima ratio, diventa “ineluttabile”, una scelta “obbligatoria”, caratterizzandola addirittura con l'aggettivo nobile di “umanitaria”.

Ma cosa si è fatto prima di trovarci a questa ultima ratio... Cosa ha fatto l'ONU prima di decretare una risoluzione che autorizza l'intervento militare?

Ed ancora di più l'intervento militare messo in atto in Libia è coerente con quella risoluzione dell'ONU, per altro rappezzata e contraddittoria?

Le contraddizioni del centro sinistra e le alternative possibili

Se dagli attuali partiti della destra possiamo non aspettarci grandi cose, certo è che invece anche i partiti del Centro – Sinistra, che spesso pongono tra i loro fondamenti ideali la pace e la nonviolenza, di fatto tutte le volte che hanno governato non hanno fatto nessuna scelta per costruire una possibilità “altra” di gestire i conflitti, senza doversene disinteressare.

Sembra quasi che la gestione non militare dei conflitti debba relegarsi ad una dimensione utopica e spirituale, senza invece porre in essere scelte e politiche che rendano percorribile anche l'opzione non militare.

Il punto è farsi carico dei conflitti e delle violazioni, mettendo in campo politiche internazionali altre di gestione di questi, politiche di interposizione, di mediazione e di gestione dei conflitti, politiche economiche di sostegno ai processi di democratizzazione, senza condizionarli.

Se quindi si è veramente convinti che l'intervento militare debba essere l'ultima ratio, dobbiamo creare le condizioni perché prima sia possibile mettere in campo altre azioni.

Sicuramente una prima scelta è quella di investire risorse economiche, strumentali e formative per la costituzione di Corpi Civili di Pace, come forza di interposizione e di facilitazione dei processi di mediazione e di gestione dei conflitti.

Una tale forza né si improvvisa, né può essere lasciata semplicemente alla buona volontà del volontariato e delle ONG, ma deve essere una parte strutturale dello stato che debba ridimensionare quanto meno la sfera militare.

E' necessario quindi, diversificando il budget assegnato al Ministero della Difesa, investire in tale ottica e spingere perché questa scelta venga assunta a livello europeo (dove per altro esistono pronunciamenti in tale ottica), andando a costituire una forza civile formata e preparata per interventi di interposizione e mediazione nelle aree di conflitto.

Ma è chiaro che si tratta di una scelta politica, espressione di una cultura politica che crede fermamente che esistano altre possibilità e in quella direzione organizza la sua politica di intervento all'estero.

La sinistra in questa ottica è stata estremamente carente, riproponendo, in maniera semplicemente più soft, una impostazione culturale propria delle forza di destra, senza essere capace di proporre una cultura civile e nonviolenta, strutturalmente “non-militare”.

Colmare questo deficit è inevitabile se ancora una volta la sinistra vuole rappresentare le istanze di gestione nonviolenta dei conflitti, altrimenti è più coerente aggiornare il proprio bagaglio culturale, senza fare mistificazioni.

I percorsi di pace sono possibili, ma necessitano non di semplici appelli e dichiarazioni di buona volontà, bensì di investimenti e di scelte che vadano in una direzione profondamente diversa da quella attuale, che, necessariamente, strideranno con gli interessi della lobby dei militari e delle industrie di armamenti, spesso così intrinsecamente legate dallo stesso destino.

Sicuramente in questo contesto in cui la politica è semplicemente la ricerca di scorciatoie, favorito da una sorta di assuefazione generale e incapacità ad indignarci, è difficile disegnare una strada alternativa, provare a sperimentarla, ma credo che siamo chiamati a questo, se davvero vogliamo rappresentare un'alternativa politica che dia voce a chi voce non ha.

Sicuramente una gestione “altra” dei conflitti necessita tempo, risorse... scelte internazionali chiare e coerenti... scelte e coerenze di natura geopolitica, di costruzione di una capacità di intervento civile e nonviolento, ma anche di ridisegnare un governo internazionale, un'ONU, che sembra quasi argomento derubricato dalla politica.

Non solo un governo mondiale, credibile, che non intervenga solo laddove sono in discussione gli interessi di certe nazioni occidentali, è l'elemento essenziale anche per impostare piccoli, ma essenziali, cambiamenti nelle politiche economiche.

Baste pensare alla scelta devastante di permettere le speculazioni finanziari sul commercio di prodotti di prima necessità quali i cereali e il grano, determinandone l'impennata dei prezzi che, accompagnato dall'obbligo di importare questi prodotti da paesi che un tempo ne era esportatori, determina l'impoverimento delle stragrande maggioranza di popolazioni.

Pur tuttavia credo che percorrere questa strada diventi inevitabile anche solo semplicemente rileggendo i risultati di questi anni ottenuti con il semplice intervento militare.

Una politica profonda tenterebbe di rileggere questo e cercare di percorrere altre strade, dando però consistenza e contenuti a queste, traducendo quel sistema di ideali in pratica reale.

Una politica che sia capace anche di leggere i movimenti intorno, di coglierne le potenzialità e i rischi, ma capace di essere di sostegno e di vicinanza a quei popoli che lottano per la democrazia, con scelte chiare, decise, lungimiranti e attuate per tempo... una politica che sia sempre pronta ad intervenire con strumenti non militari di interposizione e di mediazione dei conflitti, riuscendo così a creare ponti sia con le ONG che operano sia con i movimenti della società civile di quei paesi.