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Mario Gozzini ricorda don Lorenzo Milani

I. "Il ribelle obbediente Don Milani! Chi era costui?"
È il titolo dell'ottimo libro di Giorgio Pecorini (Baldini & Castoldi, 1996, pp. 420, lire 28.000), l'ultimo arrivato, per ora, ad accrescere la già copiosa messe di studi sul priore di Barbiana. L'interrogativo manzoniano è perfettamente appropriato, anche se, com'è ovvio, fra Carneade e don Abbondio, da una parte, e don Lorenzo, dall'altra, non c'è proprio nulla in comune.

Appropriato perché, a trent'anni dalla morte, non abbiamo ancora una risposta univoca, definitiva, condivisa da tutti. In vita si scontrò con i superiori ecclesiastici e con i tribunali civili che lo processarono per apologia di reato (l'obiezione di coscienza) mentre la cultura laica tendeva a esaltarlo, sia come "prete contro", sia come testimone attivo e propugnatore di una scuola diversa, meno attenta ai Pierini figli di papà e più ai Gianni proletari, emarginati a causa di un ambiente familiare che non li aiutava per nulla a crescere in coscienza, responsabilità, padronanza della parola: fino a fare di lui addirittura un precursore del Sessantotto.
Oggi la situazione appare in qualche modo rovesciata: l'obiezione di coscienza al servizio militare ha avuto riconoscimento giuridico in una legge del 1972, appena cinque anni dopo la morte di Milani, e i tribunali non avrebbero più alcun motivo di perseguirlo per averla anticipatamente difesa; quanto all'autorità ecclesiastica, Esperienze pastorali, il libro che nel 1958 l'allora Sant'Uffizio fece ritirare dal commercio, se lo si rilegge ora, ci si accorge che vi si trovano diagnosi, ruvide, sì, nella forma, ma esatte nella sostanza, talché, di lì a poco, il Concilio le avrebbe fatte proprie, ristabilendo con la riforma liturgica la centralità dell'Eucaristia, laddove i buoni cattolici di San Donato a Calenzano (Milani vi fu mandato cappellano, quasi subito dopo l'ordinazione, salvo un brevissimo incarico nella parrocchia di Montespertoli) nel loro analfabetismo religioso partecipavano puntuali e compunti al Vespro e alla Processione per il santo patrono ma disertavano la messa: proprio questo squilibrio intollerabile era stigmatizzato nel libro.
I contrasti col vescovo non avevano mai investito questioni di ortodossia, bensì soltanto il voto alla Dc e un certo modo non del tutto passivo di intendere l'obbedienza; la punizione dell'esilio a Barbiana (parrocchia dell'Alto Mugello destinata alla chiusura per spopolamento, e tenuta aperta solo per confinarci lui) s'era risolta in un boomerang perché l'intelligenza tenace, forse imprevedibile, di don Lorenzo riuscì a far fiorire il deserto e a rendere il nome di Barbiana un riferimento prezioso per chiunque, credente o no, rifiuti di rassegnarsi all'esistente.
D'altronde l'attuale arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, ha detto e fatto quanto gli era possibile per restituire al suo antico compagno di seminario quell'onore ecclesiale che il suo predecessore gli negò.
Al contrario, la cultura laicista - non tutta, solo qualche frangia - tende oggi a mettere in dubbio la validità della sua esperienza e a darne giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazione di dati (come ha fatto Sebastiano Vassalli, celebrato scrittore; Pecorini lo dimostra nel suo libro). E ci sono ancora cattolici laici, come Irene Pivetti, che non perdonano a don Lorenzo la sua singolarità di obbediente-disobbediente, e altri che, invece, non gli perdonano l'obbedienza, di non averla trasformata in ribellione e distacco. Certo è che il priore di Barbiana fu, e rimane, a trent'anni dalla morte, un segno di contraddizione sempre vivo e interpellante.
A parte quella più appariscente di ribelle-obbediente, lo si è accusato di illuminismo, ma la sua fede rocciosa, il suo bisogno della Chiesa, il suo amore alla "ditta" di appartenenza (come la chiamava, a seguito di quella vena ironica, molto toscana, che è un aspetto non marginale del suo carattere e della sua scrittura) dimostrano una spiritualità incontenibile nei confini della pura ragione (anche se di questa ampiamente si avvaleva, come del resto, cattolicamente, è non solo legittimo ma doveroso); lo si è dipinto come un sovvertitore di costumi e un corruttore di giovani, mentre, da un lato, il suo rigore estremo, didattico, e morale, balza fuori dagli scritti con intransigente evidenza, dall'altro, la sua scuola ha formato, di ragazzi analfabeti e isolati fra boschi e pecore, cittadini consapevoli e impegnati, educatori a loro volta, nella scuola e nel sindacato.
Il suo anticonformismo fu scambiato per dissacrazione; in realtà, egli dissacrava, sì, gli pseudovalori della società borghese (a cominciare dal militarismo e la guerra), ma per educare e richiamare a valori più autentici, più alti, più universali; dissacrava e stigmatizzava, sì, un certo modo di essere Chiesa ma per una più profonda fedeltà all'annuncio cristiano (ciò che fu, in definitiva, il fine del Concilio, esplicitamente dichiarato). Non c'è dubbio, pare a me, che la lezione di don Milani sia un antidoto tra i più efficaci contro l'idolatria del mercato e del consumo, rivincita rischiosa della cultura illuministica e borghese nella società d'oggi.
Ma la contraddizione di fondo, rispetto a chiunque si pieghi a compromessi con quelle che Giovanni Paolo II ha definito "strutture di peccato", sta in quel che si potrebbe anche dire il suo integralismo esistenziale (che non ha proprio nulla da spartire con l'integralismo negatore di laicità). "Io non vendo le mie singole prestazioni ma la mia vita intera a una comunità intera". O ancora, in una lettera alla mamma: "Non sono contento se la mia vita non ha ogni attimo la stessa intensità... Io son sereno solo quando son sempre intonato con ogni evenienza. Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d'altrui che possa accadere".
E l'evenienza, nel caso concreto, era un giovane morente di cancro, cui don Lorenzo fece da padre, da infermiere, da prete. Questa ricerca d'essere "sempre intonato" faceva da contrappeso a quel suo estremismo che cacciava dalla scuola, anche in malo modo, chi ci veniva con sussiego, chiuso nelle proprie sicurezze. Anche a proposito dell'obiezione di coscienza - la cui difesa gli sarebbe costata una condanna penale, come a padre Balducci, se il reato non si fosse estinto per morte dell'imputato - egli non era affatto estremista, non ne faceva un assoluto, anzi mostrava un raro equilibrio relativizzante. Così scrive a uno dei suoi ragazzi a disagio nel servizio militare: "Di fronte alla chiarezza universale della frase 'il cristiano deve rifiutarsi di incendiare un villaggio con donne e bambinì stonerebbe la frase 'il cristiano deve rifiutarsi di mettersi sull'attentì". Non conformista, certo, ma nemmeno, altrettanto certamente, anarchico.
Ma chi era, chi è don Lorenzo Milani? Cominciamo dalla scuola. Perché, da cappellano a San Donato, poi, con ancor più assoluta assiduità, a Barbiana, intese come impegno primario di prete quello di dare alla gente, di cui era spiritualmente responsabile, il massimo possibile di acculturazione, non solo nel senso di conoscenza ma anche in quello di capacità critica? Di fare lui, insomma, ciò che la scuola istituzionale, mal frequentata o escludente, non sapeva fare? Perché non si contentava, da "buon prete", di amministrare dottrina e Sacramenti, ma diceva che "per ora" non faceva "con convinzione altro che scuola"? La risposta è chiara, ce la dà lui stesso in Esperienze pastorali: è l'analisi penetrante di un popolo che si dice cristiano ma in cui la fede è ridotta ad abitudine, a imitazione di quel che fanno tutti, ad aggregazione passiva, privata del benché minimo senso di una comunità credente che nasce dalla, e culmina nella, liturgia eucaristica. Si badi: don Lorenzo non allude a quel fenomeno che più tardi si dirà secolarizzazione (La città secolare del pastore battista americano Harvey Cox, prima diagnosi specifica ed esatta del fenomeno, è del 1965: egli non fece a tempo a conoscerla), mette a nudo piuttosto un sottosviluppo e uno squilibrio nella fede che hanno radici remote, prima delle quali la mancanza di un alfabeto che renda possibile la comprensione e l'accoglienza del messaggio.
Un altro prete, anzi la stragrande maggioranza dei preti, se ne accontentava, non avvertiva il problema; don Lorenzo sì, e con acuta sofferenza si chiede cosa c'è di comune fra lui e quella gente fatta così.
"Ci manca anche il linguaggio col quale qualcosa di comune, se non c'èè, si crea". Conseguenza non eludibile, per un uomo e un prete come Milani, "la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi ma mezzo necessario e passaggio obbligato nè più nè meno di quel che non sia la parola per i missionari dell'Istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina". Aveva tuttavia, di questo suo convincimento, una coscienza critica: "Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli incolti pecorai di questi monti. È che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, s'arrangino, se sceglieranno male peggio per loro. Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato la parola? I missionari dei sordomuti fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina per poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale". Nè c'era in lui l'orgogliosa pretesa di imporre la sua scelta personale, legata alla realtà trovata a Barbiana, a tutti i suoi confratelli. C'è una nota che spiega: "Ho detto hic et nunc e nulla più. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano in modo diverso mi lascino dire. Non entro nei fatti loro. Ciò che dico servirà per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa". Allora l'affermazione che la scuola gli è "sacra come un ottavo sacramento" appare meno azzardata, anzi coerentissima col mandato pastorale da don Milani accolto con serietà assolutamente responsabile. Soltanto la rassegnazione a lasciar concepire i sette sacramenti canonici come atti sacro-magici preclusi al loro senso autentico può indurre a pensare che la scuola sia un arbitrio, un capriccio e non una premessa e uno strumento indispensabili. Proprio siffatta rassegnazione don Milani non sopportava e in questo senso, sì, era un rivoluzionario, "rompeva le scatole", ossia gli schemi mentali del clero cui apparteneva. Già questo era un fattore di contrapposizione e, al limite, di ostilità più o meno latente fra i suoi confratelli preti.
A ben guardare, peraltro, nessuno può onestamente negare che la scuola, per Lorenzo, avesse una motivazione direttamente pastorale, religiosa: l'accusa di illuminismo era davvero, questa sì, del tutto arbitraria, cervellotica: il priore di Barbiana vedeva nella scuola nulla più che uno strumento, preliminare e obbligato, per svolgere meglio, più efficacemente, il mandato ricevuto. Non attribuiva alla scuola funzioni e finalità immediatamente evangelizzanti: si rendeva ben conto che, con essa, "non li potrò far cristiani ma li potrò far uomini, a uomini potrò spiegare la dottrina...".
E chi sono gli uomini degni di questo nome? Risposta: "Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua".
Qui veniva, ma solo come conseguenza secondaria, l'aspetto sociopolitico della scuola milaniana: dare la padronanza della parola voleva dire, anche, porre le premesse per una rivoluzione culturale negli alunni, non più rassegnati ad accettare lo stato delle cose, la loro condanna al silenzio e all'ingiustizia. Donde la ribellione alla scuola istituzionale che faceva ponti d'oro ai fortunati e respingeva, di fatto, i figli dei poveri. Don Milani insegnava a criticare, a protestare - sempre in modo nonviolento, va ribadito - contro la burocrazia oppressiva e per far valere i propri diritti. Si può dire che non era un insegnamento mai direttamente politico, in senso partitico; era piuttosto qualcosa di prepolitico, si direbbe oggi, verso la presa di coscienza che certi problemi sono propri anche di altri. E allora "sortirne tutti insieme è la politica, sortirne da soli è l'avarizia". Politica, dunque, come - anzitutto - solidarietà con tutti quelli che soffrono gli stessi problemi di ineguaglianza, di emarginazione, di privazione di diritti umani fondamentali.
Anche questo era un fattore di grande innovazione nei confronti di una mentalità diffusa (e vecchia di secoli) secondo la quale la religione deve inculcare sottomissione al potere costituito. Ora, in quegli stessi anni, non solo si venivano sviluppando i temi della "teologia politica" (l'esodo degli ebrei dall'Egitto interpretato non più come puro simbolo dell'uscita del singolo dal peccato ma come segno che Dio vuole la liberazione del suo popolo da ogni tipo di schiavitù) ma, al massimo livello magisteriale (Sinodo dei vescovi 1971 sulla giustizia nel mondo), si sarebbe proclamato che "la liberazione da ogni stato di cose oppressivo è parte integrante della predicazione del Vangelo". Evidentemente, quindi, è tutt'altro che fuori luogo, o encomiastico, vedere in Milani un profeta, nel duplice senso di chi parla e agisce in nome di Dio e di chi anticipa temporalmente idee e posizioni che verranno poi fatte proprie dalla Chiesa nella pienezza della sua autorità.
Probabilmente, anche se leggeva il tedesco, don Lorenzo non conobbe Bonhoeffer, le cui traduzioni italiane sono posteriori. Certo è che se ne sarebbe a suo modo entusiasmato: penso ai temi dell'"uomo adulto" chiamato ad assumere fino in fondo le proprie responsabilità nella storia (anche politiche, certo) e a rimuovere quel "Dio tappabuchi" che, in maniera del tutto difforme dal messaggio rivelato della Bibbia, viene diminuito ad alibi troppo umano dei nostri vuoti di conoscenza, di intervento, di potenza. "I care", mi interesso, mi preoccupo, me ne curo - l'opposto del "me ne frego" fascista -, era il motto, come si sa, della scuola di Barbiana; motto, appunto, che si addice all'"uomo adulto" delineato dal grande pastore luterano resistente al nazismo e finito sulla forca un mese prima che la guerra finisse.
Il quale respingeva con sdegno qualsiasi "ricatto religioso" verso i compagni di prigionia terrorizzati dai bombardamenti; analogamente don Milani, come si vedrà, respingeva l'idea di "portare alla Chiesa" i suoi ragazzi. Bonhoeffer sarebbe stato certamente d'accordo con l'affermazione-esortazione del priore di Barbiana che "ognuno deve sentirsi responsabile di tutto". Dove è implicito, fra l'altro, un aspetto fondamentale della sua scuola: educare ad obbedire alle leggi vigenti (altro che anarchismo) e nello stesso tempo ad operare per cambiarle, non appena ci si accorge che non rispondono più alla realtà della vita sociale e alla tutela dei valori autentici.
L'analisi della motivazione primariamente religiosa e pastorale che lo "costringeva" a fare scuola prima di far Dottrina e Sacramenti non esaurisce certo l'originalità della fede di don Milani, della sua qualità specifica, personalissima. Il punto oscuro della conversione e della scelta sacerdotale è sicuramente un ostacolo a capirne di più. Ma basta quell'episodio noto - "io prenderò il suo posto" davanti alla salma del prete morto - a dirci intanto un carattere preciso: il forte senso dell'istituzione e della sua permanenza nel tempo (della "ditta" come scherzosamente soleva dire della Chiesa, per lui luogo e fonte insostituibile della remissione dei peccati).
Un carattere confermato da tutta la sua esperienza di prete, in particolare dalla ricerca angosciosa e ostinata, sullo scorcio della vita, di una riparazione del suo macchiato "onore" sacerdotale da parte del vescovo.
Fa parte di questo suo attaccamento, quasi viscerale si direbbe, l'aspirazione a che il vescovo sia meglio "informato" prima di pronunciare opinioni o, peggio, condanne: un aspetto, questo, consegnato in particolare alla famosa lettera indirizzata a Nicola Pistelli (quella che ha per tema la necessità di "educare il vescovo"), pagine magistrali, un catechismo non dottrinale ma pratico, un vademecum prezioso per tutti i cattolici desiderosi di una coscienza ecclesiale più aperta ed efficace, meno passivamente conformista (nella Chiesa, avrebbe detto il cardinale Leger, arcivescovo di Montreal e uno dei protagonisti del Concilio, "la critica è un dovere non meno dell'obbedienza").
Contrastante con questo attaccamento, invece, l'assenza di attenzione al Concilio e al suo svolgersi, almeno a stare ai testi che conosciamo: non sembrano nemmeno sfiorarlo le grandi novità sul rapporto fra la Chiesa e il mondo e sulla storicità della comprensione della Parola di Dio (Dei Verbum, 8: una novità, questa, che era pure una giustificazione magisteriale rilevante del suo operare hic et nunc).
E qui, forse, ci sarebbe da studiare se, ed eventualmente quanto, l'ascendenza ebraica per parte di madre abbia lasciato tracce nel temperamento e nel cattolicesimo di Lorenzo: qualcuno sostiene, infatti, che la sua fede, così caparbia e ostinata, abbia indole più da Antico Testamento che da Nuovo. Una tesi, a prima vista, scarsamente persuasiva, ma meritevole di approfondimenti che qui non siamo in grado di fare.

II. Non si può amare senza "perdere la testa"
Il rifiuto di un generico "amore universale" è uno dei cardini dell'esperienza di don Milani.
Vogliamo soffermarci su un atteggiamento nettamente provocatorio, ma tutt'altro che soltanto polemico, sul quale Milani torna spesso e che costituisce, sotto certi aspetti, un motivo conduttore di tutta la sua esperienza. Si tratta del ripudio esplicito e reiterato dell'"amore universale". "Se credessi davvero al comandamento che continuamente mi rinfacciano, e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un prete da salotto, cioè da cenacolo mistico-intellettual-ascetico, e smetterei di essere quello che sono, cioè un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani... Se offrissi un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica, smetterei d'esser parte vivente d'un popolo di montanari...". "Il sacerdote è padre universale? Se fosse così mi spreterei subito... Vi ho convinto e commosso solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature ma che le amavo con amore singolare e non universale".
Certo, si può anche rilevare un certo carattere appunto provocatorio e paradossale in queste affermazioni quasi gridate. Ma il grido di Lorenzo tocca un punto critico dell'esser cristiani. Da un lato, l'amore è vero solo se resiste alla prova, solo se, come i metalli sotto il morso del fuoco, si manifesta vivo quando scocca l'ora della difficoltà, della malattia che colpisce la persona "amata" e si tratta di assisterla giorno e notte; dall'altro lato, come dice il pastore Paolo Ricca, non sono io che posso dire "ti amo", è solo l'altro che può dire di sentirsi amato.
Abbiamo d'altronde una conclusione, ineccepibile nella sua drastica semplicità e, vorrei dire, incontestabile evidenza: "Non si può amare tutti gli uomini. Di fatto si può amare un numero di persone limitato... E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più". Una conclusione più efficace, nella sua immediata concretezza, di tante disquisizioni teologiche e commenti al capitolo 13 della I Lettera ai Corinzi, il celebre inno alla carità: se cediamo a una lettura "universale" di quella mirabile pagina neotestamentaria, c'è il rischio che la carità evapori in una nebbia indistinta; da richiamo fortissimo al vissuto concreto delle relazioni interpersonali si trasformi in esortazione generica, privata di incidenza sulla realtà. Del resto, quando il Magistero parla di "scelta preferenziale dei poveri", in diretta dipendenza dalla prima Beatitudine, mi pare confermi la scelta di don Lorenzo, nel senso di "accorgersi" dei poveri e amarli di un amore privilegiato, "schierandosi" al loro fianco.
Ma la lezione milaniana va ancora oltre l'evidenza che Dio non ci chiede che l'amare - sul serio - un numero limitato di persone. In una delle lettere più significative, quella alla studentessa Nadia, combattuta tra fede e ateismo, scrive: "È inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Quando avrai perso la testa come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio... Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene". Perdere la testa: espressione toscana, che in italiano può anche avere il significato negativo di uscir dalla ragione, ma qui, nella lingua di don Milani, ne ha uno esclusivamente positivo, quello di vivere per l'altro dimenticando se stessi. Confinato nel deserto di Barbiana, avrebbe potuto cercare di salvarsi facendo il minimo del suo dovere di parroco; invece, per grazia di Dio e per la sua indomabile tenacia di fede - compratosi, appena arrivato, lo spazio per la tomba nel cimiterino parrocchiale, e dunque deciso a restar lì, senza nulla fare perché il confino fosse revocato -, "perse la testa dietro poche decine di creature" e si salvò.
Laicamente si potrebbe dire: eterogenesi dei fini; cristianamente si deve rilevare che, anche per lui, i disegni di Dio non corrisposero ai pensieri degli uomini, sia pure vescovi. "Quei due preti mi domandavano se il mio scopo finale nel fare scuola fosse di portarli alla Chiesa o no e cosa altro mi potesse interessare al mondo nel fare scuola se non questo. E io come potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare? Come faccio a spiegare che amo i miei parrocchiani molto più che la Chiesa e il Papa?".
Un paradosso, perché sappiamo bene quanto per lui la Chiesa fosse un mezzo non surrogabile di salvezza; ma un paradosso che sta al centro della fede cristiana, una lezione preziosa per chiunque intenda prenderla sul serio, da credente o da non credente. "Ho voluto più bene a voi che a Dio", scrive ai suoi ragazzi poco prima di morire, "ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".
Ora a Barbiana è tornato il silenzio e il deserto. La chiesa è chiusa, la parrocchia soppressa, come già era stato deliberato prima di tenerla aperta per mandarci lui, in esilio. La strada per arrivarci è dissestata, fitta di sassi, invasa dalle erbacce. Ma quella tomba seguita ad essere, trent'anni dopo, meta incessante di visitatori, anche di intere scolaresche. Vanno a "fare memoria" di un uomo e di un prete al quale sentono di dovere molto. Su quella tomba andò a inginocchiarsi, come primo atto dopo la nomina ad arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli, ora cardinale: semplice omaggio affettuoso all'antico compagno di seminario o qualcosa di più, molto di più? Certo è che don Milani sta a buon diritto nella costellazione dei grandi spiriti che hanno sospinto la Chiesa fiorentina e italiana verso il terzo millennio, papa Giovanni, Enrico Bartoletti, Elia Della Costa, don Mazzolari, don Facibeni, Giorgio La Pira, per ricordarne solo qualcuno. E nessuno lo toglie, Lorenzo, da quella luce, nè i cattolici che non riusciranno mai a digerirlo nè i laici che lo ritengono "mascalzone", "maestro improvvisato e sbagliato", "violento demagogo". Guai a farne un mito da inseguir fra le nuvole; don Milani è una straordinaria realtà di cui non c'è che da ringraziare, per i credenti, Iddio, per chi non crede, la storia e la natura umana.