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Pubblicato su "Voci e volti della nonviolenza", n. 86 del 25 luglio 2007 e tratto dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo pressoché integralmente il testo della traduzione del discorso tenuto da Nurit Peled Elhanan alla manifestazione svoltasi a Tel Aviv il 17 giugno 2007 in occasione dei 40 anni di occupazione dei territori palestinesi occupati in seguito alla guerra del sei giorni del 1967. Abbiamo omesso poche parole (un breve frammento di frase) che pronunciate a una manifestazione a Tel Aviv per la pace e l'umanità da una illustre intellettuale pacifista israeliana cui un attentato terrorista ha ucciso una figlia ovviamente non danno luogo a possibili equivoci, ma che se lette decontestualizzate potrebbero essere gravemente fraintese, e percepite come dolorosissime da lettori che non possono dimenticare l'orrore assoluto della Shoah .


È un grande onore per me trovarmi su questo palco a fianco del mio amico e fratello Bassam Aramin, un uomo del campo palestinese della pace, uno dei fondatori del movimento pacifista Combatants for Peace (Combattenti per la pace), del quale due dei miei figli, Alik e Guy, sono membri. Solo la settimana scorsa, martedì ad Anata e giovedì a Tulkarem, il movimento dei Combattenti per la pace ha organizzato con successo due manifestazioni di massa che hanno visto la partecipazione di 10.000 palestinesi che ne condividevano le finalità - una lotta comune contro l'occupazione, attraverso una stretta cooperazione tra israeliani e palestinesi.
Se non fosse per le leggi razziste dello Stato di Israele, quelle migliaia di persone potrebbero essere qui con noi questa sera per dimostrare una volta per tutte che noi abbiamo un partner.
Bassam ed io siamo entrambi vittime di quella crudele occupazione che sta corrompendo questo paese da ormai quarant'anni. Noi due siamo venuti questa sera per piangere il destino di questo luogo che ha seppellito le nostre due figlie - Smadar, la gemma del frutto, e Abir, il profumo del fiore [significati letterali rispettivamente del nome proprio ebraico e arabo - ndt] - che sono state uccise a distanza di dieci anni, dieci anni durante i quali il nostro paese si è coperto di sangue di bambini, e il regno sotterraneo dei bambini sul quale camminiamo ogni giorno e ogni ora è cresciuto fino a straripare.
Ma quello che unisce Bassam e me non è solo la morte alla quale l'occupazione ci ha condannato. Ciò che ci unisce è principalmente la fede e il desiderio di crescere i bambini che ci sono stati lasciati, in modo tale che non accettino mai più che uomini politici e generali assetati di sangue e di conquista governino la loro vita e li mettano gli uni contro gli altri. Che non permettano che il razzismo che si è diffuso in questo paese li porti fuori dal percorso di pace e di fratellanza che si sono preparati.
Perché solo quella fratellanza può abbattere il muro di razzismo che è stato costruito davanti ai nostri stessi occhi.

Nel n. 122 del 30 giugno 2007, del Notiziario Settimanale dell'AAdP, è stato pubblicato l'articolo di Buratti Gino "Immigrati, sbandati e degrado della città? Qual è l’ordine giusto?", che poi è stato ripreso dal periodico "La parola ai cittadini" che lo ha pubblicato nel numero di agosto 2007. Alessandro Amorese, dirigente provinciale di A.N., ha pubblicato nel numero di settembre dello stesso periodico una replica a quell'articolo. Riteniamo utile e corretto, nella speranza di aprire un dibattito, pubblicare anche questo contributo.


Pensiamo che Gino Buratti abbia volutamente frainteso il senso dell'iniziativa organizzata da Azione Giovani in Piazza della Stazione.

Sembra infatti che egli abbia visto nella nostra manifestazione una rozza iniziativa xenofoba o addirittura razzista, quando invece siamo scesi in piazza per manifestare la nostra solidarietà ai residenti nella zona dei Quercioli e della Stazione e per farci portavoce dei loro problemi. L'intento di tale iniziativa è stato ben compreso dai cittadini, come dimostrano le migliaia di firme che abbiamo raccolto in quei giorni. In quelle zone, come ci hanno confermato numerose persone, il degrado è tale che la sera donne e bambini non possono neanche uscire di casa, in quanto la piazzetta antistante la Stazione diventa regno di sbandati, drogati e immigrati clandestini. Il nostro collegamento tra umnigrazione clandestina e degrado sociale ha spinto il signor Buratti ad attaccarci pubblicamente.

Pubblicato su “Notizie minime della nonviolenza in cammino” n. 392 del 12 marzo 2008 Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse "artificialmente" rinvigorito da strategie controproducenti e dagli "effetti perversi" di definizioni e interventi istituzionali quali l'affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi.

Dal sito dell'Università delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente relazione di Maria Grazia Campari tenuta a Firenze il 4 novembre 2006 nell'ambito del secondo ciclo di incontri seminariali sul tema "Città reale / città possibile. Mappe della convivenza. Periferie e materialità del vivere", promossi dalla "Libera università Spazia”. Maria Grazia Campari è una prestigiosa giurista e intellettuale femminista, impegnata nei movimenti per la pace e i diritti

Sono molto sollecitata dal concetto di città come bene comune e da una ricerca indirizzata alla realizzazione di mappe di convivenza. Vi ritrovo alcune suggestioni che personalmente ho tratto da una serie di incontri tenuti negli ultimi due anni presso la Libera università delle donne di Milano.
Eravamo partite - con un seminario dal titolo significativo "Paura/sicurezza" - dalla constatazione che la profonda disuguaglianza dei livelli di vita e il drastico ridimensionamento dello stato sociale allargano la forbice fra garantiti ed esclusi, determinano nei primi l'insorgere di un egoismo proprietario che costruisce muri, in difesa di cittadelle del benessere assediate. Casi recenti nel Lombardo Veneto confermano la permanenza della fase e illustrano il concetto alla lettera, con la costruzione di muri e valli per impedire l'ingresso a immigrati e rom.

La prima organizzazione a rompere gli indugi è stata Medici senza frontiere. «Siamo pronti a salpare domani da Augusta per tornare a navigare nel Mediterraneo con la Geo Barents» ha detto l'Ong, nelle parole del capomissione Juan Matias Gil. «Salvare vite umane è il nostro imperativo » mentre «la strategia del governo ha l'obiettivo di ostacolare le attività di ricerca e soccorso». Il giorno dopo, il decreto Piantedosi ha provocato ribellioni e proteste nel mondo della società civile. Tutto come da attese, peraltro. Lo stop ai soccorsi plurimi, il divieto di trasbordo e la richiesta d'asilo a bordo sono punti inaccettabili per chi fa salvataggi in mare. Così, dopo Msf, è stata Sea Eye a contestare il provvedimento. «Non seguiremo alcun codice di condotta illegale o qualsiasi altra direttiva ufficiale che violi il diritto internazionale o le leggi del nostro Stato di bandiera, nel nostro caso la Germania. Rifiutiamo questo cosiddetto codice e ci aspettiamo che il governo tedesco ci protegga » ha affermato Annika Fischer, membro del consiglio di amministrazione dell'organizzazione. E già si invoca, da più parti, la "disobbedienza civile". (D.M.)

«Ho visto la sua faccia ieri al telegiornale. Dipinta dei colori della rabbia. La sua voce ,poi, aveva il sapore amarissimo del fiele. Ha detto che per noi che siamo qui nella vostra terra è finita la pacchia. Ci ha accusati di vivere nel lusso, rubando il pane alla gente del suo paese. Ancora una volta ho provato i morsi atroci della paura…

Chi sono? Non le dirò il mio nome. I nomi, per lei, contano poco. Niente. Sono una di quelli che lei chiama con disprezzo “clandestini”.

Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri. Lo dico subito. Non sono una vittima del terrorismo di Boko Haram. Nella mia regione, il Delta del Niger non sono arrivati. Sono una profuga economica, come dite voi, una di quelle persone che non hanno alcun diritto di venire in Italia e in Europa.