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Pubblicato su “Notizie minime della nonviolenza”, n. 124 del 18 giugno 2007


1. Una "sinistra" ministeriale che fa la guerra e se ne vanta, che viola la Costituzione e se ne vanta, che riarma e nuove guerre e nuovo terrorismo prepara, che in tutto ciò che è sostanziale è subalterna all'eversione berlusconiana, ebbene, non solo è una "sinistra" destinata alla sconfitta, semplicemente non è più una sinistra. E del resto da oligarchie corrotte o totalitarie (e talvolta sia corrotte che totalitarie) cosa ci si può aspettare? Altro oggi occorre, e urgentemente.
Così come una "sinistra" ambigua e parassitaria, frivola e irresponsabile, cialtrona e funzionalmente asservita ai media della società dello spettacolo, che ammette lo squadrismo e ammira il fascismo - tanto quello stalinista quanto quello fondamentalista -, è una "sinistra" che serve solo alla destra eversiva, al sovversivismo dall'alto, al regime dei vampiri, al disordine costituito.
Altro oggi occorre, e urgentemente.

2. Se, come a noi sembra, la questione decisiva è quella della pace e della guerra, ovvero della salvezza dell'umanità dall'onnicidio (e dicendo questo intendiamo ad un tempo i diritti umani di tutti gli esseri umani, la difesa della biosfera, la socializzazione dei mezzi di produzione e l'affermazione di un'umanità di persone libere, eguali e responsabili) si pone qui e adesso la necessità della costruzione di una sinistra che s'incardini sulla scelta della nonviolenza come principio fondamentale del proprio pensare ed agire politico.

3. La nonviolenza che è stata il cuore pulsante della tradizione del movimento operaio; la nonviolenza che è stata la chiave di volta delle lotte antirazziste ed antimperialiste; la nonviolenza che è il nucleo e la matrice dell'ecologia politica; la nonviolenza che è il primo motore della resistenza antifascista e dei movimenti antimafia; la nonviolenza di cui le esperienze e le riflessioni del movimento delle donne sono la corrente calda, l'inveramento storico maggiore. La nonviolenza come teoria e pratica della liberazione, come concrezione agente del principio responsabilità.

Tratto dal sito del Centro studi Sereno Regis (www.cssr-pas.org) riprendiamo il seguente intervento di Enrico Peyretti sul tema "Nonviolenza: passato, presente, futuro", svolto al seminario del 12 aprile 2007 di preparazione al convegno annuale del Centro medesimo e pubblicato sul n. 68 di “Voci e volti della nonviolenza” del 25 giugno 2007

Gli appunti seguenti sono un tentativo di riflessione attorno al tema della prima sezione, "Tra passato e futuro", del progettato convegno dell'8-9 dicembre 2007, "La pace è nonviolenza", in occasione del XXV anno del Centro Studi Sereno Regis, di Torino. Sullo stesso tema stanno lavorando altri collaboratori del Centro Studi (e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., sito: www.cssr-pas.org).

Riguardo a violenza e nonviolenza nella storia umana, abbiamo parlato di "una storia di offese e di attese". Probabilmente è impossibile un bilancio generale del passato umano, una filosofia della storia sotto questo profilo.
Ma si possono avvicinare dei frammenti.
È nota l'espressione di Hegel, ripetuta più volte anche da Bobbio: la storia come "grande mattatoio". All'opposto, Gandhi non dice solo che la nonviolenza è "antica come le colline", ma, interrogato sulla violenza nella storia, ritiene di poter dire che c'è più bene che male, più collaborazione che violenza. Questa è per lui come degli strappi nel tessuto, ma il tessuto della convivenza umana c'è. Potremmo dire lo stesso osservando la nostra vita quotidiana, per quanto siano gravi i problemi. Se la violenza fosse la legge della storia, dice Gandhi, l'umanità si sarebbe già distrutta (1). Se oggi stiamo mettendo le premesse di questo esito catastrofico, e se non lo eviteremo, avrà ragione Hegel.
Sembra, finora, di poter dire che la storia dunque è una storia di offese ai diritti umani, ma non è solo questo, a questo non si riduce. Inoltre, l'offesa non annulla, ma semmai evidenzia la dignità umana: nel colpirla la fa risaltare. L'offesa è offesa, è male e dolore, è una realtà negativa, proprio perché c'è una dignità, un valore che non deve essere offeso, e che, pur offeso, non è distrutto, ma grida la sua ragione, anche nel silenzio dell'ucciso, e reagisce spesso positivamente.
Una storia di offese e di attese, dicevamo. Davanti ai limiti dell'esistenza e alle violenze, non sono mai mancati miti, profezie, speranze, promesse, testimonianze, esperienze di una realtà umana emancipata dalle offese all'umanità e dignità di ciascuna persona.

Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'culturà e la 'tradizionè giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realtà ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilità di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualità, i comportamenti e le identità di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiché i ruoli e le responsabilità sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunità non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorità comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell'età, della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune "categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne.

(traduzione di “The Drum Major Instinct”, sermone pronunciato nella chiesa battista di Ebenezer, Atlanta, il 4 febbraio 1968)

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 76 del 6 luglio 2007


Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: "Che cosa vorrei che dicessero?". E stamani lascio a voi la parola.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l'umanità.