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Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Nella Ginatempo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) è una prestigiosa intellettuale impegnata nei movimenti delle donne, contro la guerra, per la globalizzazione dei diritti; è docente di sociologia urbana e rurale all'università di Messina; ha tenuto per alcuni anni il corso di sociologia del lavoro, svolgendo ricerche sul tema del lavoro femminile; attualmente svolge ricerche nel campo della sociologia dell'ambiente e del territorio. Tra le sue pubblicazioni: La casa in Italia, 1975; La città del Sud, 1976; Marginalità e riproduzione sociale, 1983; Donne al confine, 1996; Luoghi e non luoghi nell'area dello Stretto, 1999; Un mondo di pace è possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Dalla bella mailing list femminista e pacifista "Lisistrata" (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) riprendiamo il seguente intervento di Lidia Menapace, scritto come lettera personale ad alcune persone intervenute nel dibattito assai vivace e finanche aspro su quella mailing list svoltosi in questi giorni in riferimento al rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana ed alla posizione che Lidia assumerà in occasione del voto del 17 luglio in merito]

Le mie motivazioni partono prima di tutto dalla evidente profonda attuale crisi del movimento pacifista, argomento che ho sollevato il 2 giugno e che non si può sottacere; le notizie che tutti e tutte citiamo sono vecchie di qualche anno e non hanno più il timbro evocativo che avevano, intanto la cultura guerrafondaia e tutto il contorno di una diffusa acquiescenza alla guerra cresce ovunque.
Credo che bisogna ricostruire una cultura pacifista radicale (che non c'è più) e studiare strumenti di azione differenti (numerosi da me proposti negli scorsi anni sono stati del tutto lasciati cadere e non mi sono lagnata di ciò, anche se ci ho patito abbastanza, perché per anni ho detto cose sulla neutralità, riforma delle Nazioni Unite, ecc., lasciate sempre cadere a prò di una cultura più raffazzonata e urlata): ad esempio a me ora pare molto efficace ciò che sta avvenendo a Pordenone dove un comitato di cinque cittadini ha citato in giudizio il governo Usa, non come fatto simbolico, ma realmente, e offre al movimento collegandosi al resto d'Europa uno strumento di lotta tramite il diritto internazionale, rafforzando se stesso e anche il diritto, che era stato quasi del tutto cancellato.
Insomma nelle decisioni singole bisogna partire dal fatto che vi è stata una lunga battuta di arresto molto pesante nel movimento: le persone che hanno scritto o si sono rivolte a me per implorare che non facciamo cadere il governo sono più numerose di quelle che hanno scritto per imporre la scelta secca del no [il no al rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana - ndr] senza occuparsi delle conseguenze, e io non posso dimenticare che sono stata eletta sulla parola originaria di buttare giù Berlusconi.
Quanto al ragionamento che faccio e che a mio parere si sarabbe rafforzato e avrebbe avuto più forza nella trattativa col governo se avessimo - come avevamo convenuto - continuato a discutere tra noi per migliorare l'accordo invece di sbranarci subito tra noi, è facile da esemplificare: il decreto governativo peggiora già le sue chances migliorative, se il governo vede di non avere un appoggio sia pure tiepido e condizionato, ma almeno concorde, e si predispone subito a sostituirci nell'alleanza o a trattarci sempre col metodo della maggioranza invece che con quello del consenso.
Facciamo l'ipotesi che un accordo anche già peggiorato di fronte alle nostre dispersioni, passi alla Camera con alcuni no (che là sono possibili senza produrre alcunché perché ci sono margini) e poi venga al Senato dove viene respinto, dato che il margine è di due voti e basta meno degli otto [il riferimento è agli otto senatori che si sono espressi pubblicamente contro il rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana - ndr] per respingerlo. Torna alla Camera e il governo nanuralmente predispone i termini per poterlo far approvare, il che significa che cerca alla Camera appoggi più larghi da esportare poi al Senato. Siamo già fuori dalla maggioranza e si avvia la costruzione di una "Grande coalizione" rispetto alla quale possiamo fare delle nobili testimonianze senza alcuna possibilità di verifica.
A me sembra, e lo dico crudamente, un'azione che favorisce, stabilizza e rende "normale" la guerra più che non l'altra ipotesi, certo molto meno suggestiva: posso sbagliare, ma non inganno nè me nè altri, e quello che dico è un ragionamento politico, non un volgare machiavellismo e nemmeno la prova che ho il cervello in pappa.
Con affetto, Lidia

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Ringraziamo Floriana Lipparini (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per questo intervento. Floriana Lipparini, giornalista (tra l'altro ha lavorato per il mensile "Guerre e Pace", che per qualche tempo ha anche diretto, occupandosi soprattutto della guerra nella ex Jugoslavia), impegnata nel movimento delle donne (Collettivo della Libreria Utopia, Donne per la pace, Genere e politica, Associazione Rosa Luxemburg), ha coordinato negli anni del conflitto jugoslavo il Laboratorio pacifista delle donne di Rijeka, un'esperienza di condivisione e relazione nel segno del femminile, del pacifismo, dell'interculturalità, dell'opposizione nonviolenta attiva alla guerra, da cui è lentamente nato un libro, Per altre vie. Donne fra guerre e nazionalismi, edito in Croazia da Shura publications, in edizione bilingue, italiana e croata]

Peacekeepers

Esangui abitatori del nulla
che non ridono
non piangono non gridano
sotto ogni cielo
su tutte le strade di polvere e di sangue
ogni respiro di vita trafiggono
al suono di quei passi le voci si spengono
le mani silenziose si aprono
ombre nude diventano
e di nuovo di nuovo si alzano
le canzoni le urla di nuovo di nuovo
risuonano nell'aria di neve di pioggia di vento
come frecce puntate al cuore s'involano
per un istante sopra le nubi nel sole s'indorano
e poi ricadono ricadono ricadono.


La continua polarizzazione su Lidia Menapace [il riferimento è alla vivace e fin aspra discussione svoltasi in alcune mailing list - ndr] rischia davvero di porre in secondo piano il cuore del problema. Eppure la stima e l'affetto per una persona di valore non dovrebbero indurre nè a inorridire se sbaglia nè a caricarla di aspettative troppo pesanti nè a concentrare su di lei tutte le speranze. E nemmeno dovrebbero impedire di dissentire radicalmente dalle sue scelte.
Non so se qualcuna o qualcuno ha realmente pensato che la sola presenza di Lidia in Parlamento potesse cambiare la politica estera dell'attuale governo, fatto sta che lei in occasione della manifestazione del 2 giugno a Roma secondo la percezione di alcune persone presenti avrebbe subito chiaramente tracciato una linea di separazione fra chi sta nel Palazzo e chi sta fuori, ossia i movimenti. Ad esempio su questo penserei giusto il contrario, penserei che l'unico modo per dare senso alla presenza nel Palazzo sia invece quello di rompere con le idee ricevute e tenere aperta una porta per vivificare l'aria stantia e autoreferenziale che si respira nelle stanze del potere con l'ossigeno dei pensieri di chi sta fuori.
Insomma, includere invece di escludere (parlo di contenuti politici, ovviamente, non di presenze fisiche).

Tornando però al cuore della questione, il rifinanziamento della guerra in Afghanistan (guerra, non missione: le parole sono importanti), la domanda che mi pongo sostanzialmente è questa: esisteva o esiste ancora una modalità utile a contrastare e impedire la sciagurata decisione di proseguirla? Possiamo attivare azioni urgenti che portino il segno della nonviolenza, del pacifismo, del femminile? L'assemblea in programma il 15 luglio dovrà parlare di questo, non delle eventuali delusioni personali.

(Tratto dalla “nonviolenza è in cammino”, n. 1361 del 18 luglio 2006)

Una politica di pace per cambiare la rotta La situazione di estrema gravità che sta infuocando il Medioriente ci porta necessariamente ad uscire dal dibattito a basso prezzo sulle questioni relative alle "missioni militari" portato avanti dalla politica istituzionale. Essa richiede da parte di tutti un segno di discontinuità che vada oltre i meccanismi di ingegneria parlamentare e le relative diatribe di posizionamento connesse.
Continuare a ricorrere alla logica della guerra per tentare di risolvere i conflitti tra paesi o tra gruppi etnici rappresenta ormai in maniera evidente un sanguinoso e irreparabile errore.
Nella storia recente, dal Vietnam ad oggi, sono ormai molte le occasioni che rappresentano una prova evidente di questa verità così difficile da far accettare sulla scena internazionale. Anche i motivi economici e gli interessi di dominazione non sono più così chiaramente convenienti, come in passato, per le potenze armate, mentre i costi umani e sociali hanno ormai assunto dimensioni inaccettabili.
Su questi fatti, ben documentati, e su una ferma e convinta etica della nonviolenza delle relazioni umane, si fonda il nostro assoluto rifiuto del ricorso alle guerre, anche quando vengono camuffate e proposte come "interventi umanitari" o "esportazione della democrazia", celando subordinazioni inconfessabili a potenti alleati o al sistema economico dominante.

(Tratto da “La nonviolenza è in cammino, n. 1361 del 18 luglio 2006)

Il documento della Rete Lilliput - una delle maggiori e migliori esperienze di accostamento alla nonviolenza oggi attive in Italia - che sopra presentiamo contiene molte utili riflessioni e proposte; contiene altresì alcune gravi ambiguità, e contiene infine alcune tesi decisamente non sufficientemente meditate e da chi scrive queste righe ritenute del tutto inaccettabili. Le principali e più flagranti di esse vorremmo qui segnalare.

Tratto da "La nonviolenza è in cammino" n. 1374 (31 luglio 2006) e 1375 (1 agosto 2006)


[Riproduciamo ancora una volta la prima parte (pp. 1-15) dell'opuscolo che riporta alcuni testi di Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta", e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., sito: www.nonviolenti.org)]

Principi di nonviolenza

La nonviolenza risulta dall'insoddisfazione verso ciò che, nella natura, nella società, nell'umanità, si costituisce o si è costituito con la violenza; e dall'impegno a stabilire dal nostro intimo, unità amore con gli esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione più concreta ed anche più evidente di questa unità amore è l'atto di non uccidere questi esseri e di non operare su di loro mediante l'oppressione e la tortura. Questo impegno non è che un punto di partenza (come nessuno nella poesia, nella musica, può pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del nostro atto di unità amore non possono essere compensate che dal proposito di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro singola individualità, mai dicendo che basta. La nonviolenza non è l'esecuzione di un ordine, ma è una persuasione che pervade mente, cuore ed agire, ed è un centro aperto: il che significa che ognuno prende l'iniziativa di unità amore senza aspettare che prima tutti si innamorino, e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerità, e con dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della realtà-società-umanità ancora mette a sviluppare pienamente questa unità con tutti.
Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che è di non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi più che mai, anche economicamente politicamente culturalmente, l'unità mondiale dell'umanità, l'atto di affetto all'esistenza di ogni essere umano ci porta al punto di questa unità umana. Verso gli altri esseri viventi ma non umani, come gli animali e le piante, tutto ciò che è fatto nell'affetto e rispetto alla loro esistenza, apre l'unità amore anche a loro e abitua a sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri più complessi e più simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha perciò grande importanza.
La nonviolenza non è soltanto contro la violenza del presente, ma anche contro quelle del passato; e perciò tende a un rinnovamento della realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della società dove esiste l'oppressione e lo sfruttamento, dell'umanità nella sua chiusura egoistica e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finché diamo col pensiero e con l'atto la morte, non possiamo protestare contro la realtà che dà la morte. E perché la società non torni sempre oppressiva sotto un nome od un altro, deve cambiare l'uomo e il suo modo di sentire il rapporto con gli altri: la nonviolenza è impegno alla trasformazione più profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e perciò non si colloca nella realtà pensando che tutto resti com'è, ma sentendo che tutto può cambiare, e che com'è stata finora la realtà società umanità non era che un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien dato un nuovo corso alla vita con i modi dell'unità amore e della compresenza di tutti.
La nonviolenza è in una continua lotta, con le tendenze dell'animo e del corpo e dell'istinto e la paura e la difesa, con la realtà dura, insensibile, crudele, con la società, con l'umanità nelle sue attuali abitudini psichiche: non può fare compromessi con questo mondo cosi com'è, e perciò il suo amore è profondo, ma severo; ama svegliando alla liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell'amore, tutti avviati alla liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non è possibile altro, contribuendo a liberarli dando, più che è possibile, il bene.

Tratto da “La domenica della nonviolenza”, n. 91 del 17 settembre 2006

Presento qui una serie di scritti brevi che raccolgono alcune mie riflessioni sulla pratica del metodo del consenso. Li ho usati in forme diverse nei mie ultimi lavori formativi sui processi decisionali consensuali. Il fine è la comprensione del metodo stesso, cosa che credo potrebbe favorirne la diffusione.
C'è una domanda al fondo della mia ricerca: giacché è impossibile non comunicare, non decidere, non gestire i conflitti, come posso farlo in modo nonviolento? E c'è una domanda fondamentale che rivolgo ad ogni gruppo: conosce il metodo che usa per decidere?