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L'Assemblea generale dell'Onu ha fissato al 2 ottobre di ogni anno la Giornata internazionale della nonviolenza. La data è stata scelta in quanto anniversario della nascita di Gandhi, ispiratore dei movimenti per la pace, la giustizia, la libertà di tutto il mondo. In una risoluzione approvata dai 192 Stati membri dell'Onu, su proposta del governo indiano, l'Assemblea invita tutti i paesi, organizzazioni e individui a "commemorare questo giorno per promuovere una cultura della pace, della tolleranza, della comprensione e della nonviolenza". È infatti con Gandhi che nasce la nonviolenza moderna. Certo, essa è sempre esistita, è "antica come le montagne", ma prima del Mahatma era sempre stata intesa come via personale alla salvezza, come codice individuale, come precetto valido per l'individuo. È solo con la straordinaria esperienza gandhiana, prima in Sudafrica e poi in India, che la nonviolenza diventa politica, strumento collettivo di liberazione.

Manca il dialogo. Su certi argomenti non ci si può confrontare e discutere: mutismo, silenzio pesante, ognuno con le sue idee intoccabili.
Manca l'accoglienza. C'è paura, pregiudizio, intolleranza. Muri ostili, sguardi diffidenti e cattivi. Centri di "accoglienza" come carceri, respingimenti colpevoli verso sofferenze note ma ignorate.

L'abrogazione del servizio militare obbligatorio ha di fatto cancellato dalla coscienza comune il valore dell'obiezione rispetto alla violenza, per molte ragioni ancora ineliminabile, delle istituzioni militari. Ricordo che solo la "leva" era un obbligo iscritto nella Costituzione e, quindi, un vincolo ineliminabile per chi avesse voluto uscire dal pensiero astratto di un ideale di pace e testimoniare la propria dissociazione dalle guerre. Oggi credo che i nonviolenti debbano considerare se non sia giunto il tempo di rinnovare la propria dissociazione da ogni tipo di violenza che sia imposta per obbedienza giurata a coloro che esercitano la professione militare.

(Tratto dal n. 1127 del 27 novembre 2005, del notiziario “La nonviolenza è in cammino”).
Jean-Marie Muller. Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, è tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. È direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventù ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondò il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente)
La violenza che sta incendiando i sobborghi non è un mezzo d'azione, ma un mezzo d'espressione.
Le violenza appare come l'ultimo mezzo di espressione a coloro ai quali le società ha rifiutato tutti gli altri mezzi per esprimersi.
Le violenza è l'ultima risorsa di coloro che sono esclusi da ogni partecipazione alla vita della società.
La violenza esprime allora una richiesta di riconoscimento, una volontà di vivere: "sono violento, quindi sono".
Questa violenza porta un po’ di vividezza nel grigiore dell'esistenza. Essa viene a rompere la monotonia del tempo che trascorre nella disoccupazione e nel vuoto dei giorni. Nello stesso tempo, le violenza è una maschera che nasconde degli esseri che errano, che soffrono, che si disperano.
Bisogna ascoltare e comprendere questa violenza come una pro-vocazione, cioè, secondo il significato etimologico della parola, come un appello.
La violenza ha le sue radici nell'angoscia e vuole essere una richiesta d'aiuto. La violenza vorrebbe essere una parola; essa è, quantomeno, un grido. Si tratta quindi di capire questa violenza, mentre è vano condannarla con un surplus di indignazione.
In definitiva, questa violenza è l'espressione di un desiderio di comunicazione, un bisogno di dialogo.

Spetta alla società capire questo appello.

Le delinquenza causa la rottura del legame sociale, ma essa ne è in primo luogo una conseguenza. A partire dal momento in cui un individuo, soprattutto un giovane, non trova nella società quel radicamento che struttura la sua personalità e dà un senso alla sua esistenza, egli si trova in una situazione di rottura. Se ha un insuccesso scolastico, si troverà senza lavoro e sarà privato di una vera cittadinanza. Nella maggior parte dei casi, la discriminazione etnica rafforza l'esclusione. È un ingranaggio. L'inciviltà è precisamente la conseguenza di una privazione di cittadinanza.

Le violenza permette tanto più di farsi riconoscere quanto più è proibita dalla società. Essa simboleggia la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato.
Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. Essi ritengono che non vi sia alcuna ragione di rispettare le leggi di una società che non rispetta i loro diritti. A coloro che la legge esclude da ogni tipo di riconoscimento, la violazione della legge appare il miglior mezzo per farsi riconoscere. In più, la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società iniqua, calpestando gli attributi di un ordine ingiusto, procura un piacere sottile, un godimento reale.
Per questo motivo, la violenza esercita un fascino su coloro che sentono la frustrazione e l'umiliazione di essere degli esclusi. La violenza rappresenta un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulle loro vite, di cui sono stati spossessati. Non è questo un mezzo degenerato, deviato, di accesso a una forma di trascendenza? Ogni tentativo di "moralizzazione" è destinato all'insuccesso. Peggio ancora, ogni stigmatizzazione non può che aggravare la situazione e rendere impossibile la riconciliazione. Più che uno sbaglio, essa costituisce un errore politico. La repressione poliziesca è una fuga in avanti che allarga la frattura sociale e allontana il ritorno alla pace. La "tolleranza zero" deve in primo luogo concernere i poliziotti incivili di cui i giovani dei sobborghi sono troppo spesso vittime.
Occorre riconoscere che, malgrado la retorica ufficiale, la nostra democrazia ha un cattivo rapporto con la sua polizia. Bisogna certo "ristabilire l'ordine", ma questo deve significare che bisogna in primo luogo "ristabilire la giustizia" in questi quartieri diseredati.

Sforzarsi di comprendere le violenza non significa "lasciar dire e lasciar fare". Al contrario, comprendere la violenza è il modo migliore per interdirla.

Ma soltanto se la società sarà capace essa stessa di dare un segnale forte di nonviolenza sarà possibile dare un significato all'interdizione della violenza. Questa violenza manifesta che coloro che vi si abbandonano non incontrano limiti; nello stesso tempo, essi domandano che si pongano loro dei limiti. Questi serviranno loro come un riferimento, che darà loro la sicurezza di cui hanno un bisogno vitale e permetterà di strutturare le loro personalità. Bisogna dunque rispondere alla violenza tentando di ristabilire la comunicazione. La cosa peggiore è rispondere a questa violenza con la violenza. È un formidabile segno d'impotenza da parte della società. Bisogna dunque rispondere a questa violenza mettendo in atto una strategia nonviolenta rivolta a creare degli spazi d'intermediazione, in cui dei mediatori potranno ristabilire la comunicazione fra questi esclusi e la società. Sarà allora possibile far prevalere il rispetto della legge.

Se la violenza è l'espressione di una parola che non ha potuto essere detta, nel momento in cui il delinquente potrà dire la sua violenza, sarà già in grado di governarla e di trasformarla. La parola libera dalla violenza. La mediazione deve mirare a permettere agli esclusi e ai delinquenti di riappropriarsi della loro vita per mezzo della parola. La parola ha una virtù efficiente. Mettere in parole - verbalizzare - le proprie sofferenze, le proprie paure, le proprie frustrazioni, i propri desideri, significa distaccarsene così da poter affrontare e gestire la realtà con la riflessione.
La vera sfida lanciata da questi violenti alla società è quella di decostruire la cultura della violenza che domina le nostra civiltà. È compito di tutti i cittadini impegnarsi nella promozione di una cultura della nonviolenza che permetta di inventare comportamenti e metodi che consentano una risoluzione umana degli inevitabili conflitti che costituiscono la trama della nostra vita collettiva.

Alcune riflessioni e proposte di Lidia Menapace, tratte da “nonviolenza femminile Plurale”, n. 76 del 10 agosto 2006


Prima riflessione: per un'Europa di pace, neutrale, disarmata, nonviolenta (pubblicata su “La nonviolenza è in cammino”, n. 671 di settembre 2003

Seconda riflessione: ancora tre note sulla proposta dell'Europa neutrale e attiva, costruttrice di pace con mezzi di pace (pubblicata su "La nonviolenza è in cammino" n. 683, settembre 2003)

Terza riflessione: ancora per l'Europa neutrale e attiva, disarmata, smilitarizzata e nonviolenta (pubblicata su "La nonviolenza è in cammino" n. 684, settembre 2003)

Quarta riflessione: proposte per un’Europa di Pace (pubblicata su "La nonviolenza è in cammino" n. 696, ottobre 2003)


Un’occasione persa,
venerdì scorso, presso la Chiesa Metodista Valdese di Carrara, avevamo organizzato, come Accademia Apuana della Pace, un incontro con la “Rete Migranti” di Lucca, per riflettere, partendo dalla loro esperienza di “digiuno collettivo”, come momento finale di una lotta per la difesa di diritti violati a migranti, sulle forme di azione nonviolente da mettere in atto dinanzi alle contraddizioni del nostro territorio, siano queste sociali, occupazionali, ambientali…
Erano presenti solo alcuni esponenti del Senato e persone della Chiesa Valdese… nessuna delle associazioni dell’AAdP, nessuna di quelle dei coordinamento migranti…
Un fiasco insomma… forse dovuto a difficoltà organizzative (ma la capacità organizzativa dell’AAdP dipende da quella delle associazioni aderenti), o forse a disinteresse nei confronti di una riflessione che collochi la nonviolenza non solo in una dimensione internazionale, bensì dentro ai nostri territori locali.
Eppure abbiamo vissuto, in questi ultimi anni, il tentativo di mettere insieme un coordinamento migranti, prima come AAdP, poi, facendo un passo indietro, facendo in modo che fosse abitato da tutti quelli che non si sentivano vicini all’Accademia… abbiamo vissuto l’impegno per i ritardi con cui la Questura concedeva i permessi di soggiorno, accontentandoci però di qualche ordine del giorno dei consigli comunali e della loro totale indifferenza a mettere in atto azioni concrete che vadano nella direzione di affrontare i diritti negati ai migranti… per poi veder lentamente spengersi quel coordinamento messo in piedi.
Abbiamo assistito all’indifferenza con la quale Istituzioni e cittadinanza sopportano la presenza della Tenda dei Lavoratori a Massa, che denuncia, nel suo totale isolamento, il degrado politico, sociale, economico ed occupazionale della nostra città.
Abbiamo sperimentato il limite di certe forme di protesta sui diritti, la sensazioni di impotenza che spesso ci attanaglia…
Abbiamo assistito alla squallida contestazione di gruppi di neofascisti dinanzi alla semplice richiesta di adibire uno spazio privato a luogo di culto per i musulmani.
Per tutto questo pensavamo che una riflessione, non teorica, ma che partisse da esperienze concrete potesse essere l’occasione per ricominciare ad urlare… per riprendere a sperimentare tutte le forme di protesta e, accanto a queste, a mettersi in gioco con un po’ di fantasia (non necessariamente con il digiuno collettivo).

Sento il bisogno reale di fare uno sforzo per recuperare l’indignazione, la capacità di “incazzarci”, ma di fare questo “insieme”, costruendo non una rete teorica e astratta, ma una rete sui bisogni concreti, che vada a parlare ai cuori e ai volti delle persone, mettendo in risalto come, ad esempio, non è certo la presenza di un luogo di preghiera per musulmani che aumenta “il nostro vivere nella paura” o come questo debba essere il segnale per chi crede “della perdita della propria identità di fede”… Che urli come il degrado occupazionale ed economico della città è qualcosa che riguarda non solo i diretti interessati, che perdono il posto di lavoro, ma ciascuno di noi che abita in questa città.
Ma dobbiamo imparare a indignarci mettendo insieme questo nostro sentimento e traducendo questo sentimento in obbiettivi, magari minimi, ma concreti, sui quali misurare la nostra “fantasia” nel pensare a forme di lotta… mettere insieme significa fare rete, costruire un tessuto ampio di lotta, pensare ad obiettivi minimi, ma che affermi principi e valori generali…
Dinanzi alle tante contraddizioni dei nostri territori, riusciremo a non perdere altre occasioni? Riusciremo a far si che la nonviolenza sia parte del nostro agire politico quotidiano, della nostra prassi politica, senza separazione tra fini e mezzi?
Alle porte le elezioni del Comune di Carrara, possono essere un’occasione per misurare la capacità di fare una politica altra?
Nel 2008 si voterà in quasi tutti gli altri comuni della provincia, è pensabile costruire percorsi politici di democrazia partecipata e condivisa che dia il senso di una politica altra?
I Comuni e la Provincia che aderiscono alla Tavola della Pace ritengono che quell’atto “amministrativo” sia sufficiente per una politica di pace?

Gino Buratti