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A tu per tu con una donna che ha deciso di fermarsi, con pazienza, a prendere un caffe’ con i suoi “Haters” – di Hannah Richter, 14 dic. 2020

Viviamo in un mondo che ospita un grande insieme di differenti gruppi di persone. Noi stessi ci consideriamo “parte di un gruppo” ed “estranei ad un certo altro gruppo”, distinguiamo spesso un “noi” da un “loro”. Siamo portati a generalizzare in continuazione, e spesso a parlare di “quegli altri là” come si trattasse di nemici, a prescindere. Frequentemente ci dimentichiamo di quanto simili a “noi” “quegli altri là” possono essere; tendiamo cioè a sorvolare su tutto un insieme di cose che potremmo avere in comune, molte esperienze simili che possiamo avere tutti attraversato, e anche pregiudizi che potremmo avere in comune, gli uni nutriti nei confronti degli altri.

In occasione dell’ultima assemblea delle Associazioni afferenti all’Accademia Apuana della Pace, che si è tenuta Venerdì 2 Ottobre 2020, sono stati brevemente messi in luce i benefici che un’attività di formazione coordinata dalla stessa Accademia potrebbe avere per tutti i soci iscritti. Si è considerato il fatto che sarebbero di indubbia utilità le conoscenze, tecniche di mediazione, e varie analisi di buone pratiche già accumulate dagli studi di Istituti di Formazione Superiore Italiani e Internazionali impegnati nella realizzazione di contesti pacifici. Si sono ricordati tra questi, a titolo esemplificativo, I Corsi di Laurea dell’Università di Pisa, di Assisi e l’Università per la Pace della Costa Rica fondata con il patrocinio e riconoscimento dell’ONU nel 1980.

Tre fragilità

La fragilità della persona umana come corpo vivente esposto al dolore, alla malattia, alla morte. E basterebbe aver letto Giacomo Leopardi o Simone Weil per sapere quel che c'è da sapere.

La fragilità della società fondata su rapporti di dominazione, di sfruttamento e consumo anziché sulla convivialità e sulla responsabilità. E basterebbe aver letto Karl Marx o Hannah Arendt o Emmanuel Levinas per capire quel che c'è da capire.

"Zona grigia" è una delle espressioni più fortunate di questi decenni, e una delle più distorte. Non casualmente. Che il male possa contagiare chi lo subisce è una verità semplice, addirittura ovvia. Ma non indolore. Amiamo profondamente l'idea che gli oppressi sappiano resistere, che siano solidali fra loro. Ci rassicura pensare che la contaminazione diminuisca quanto più è dura la violenza inflitta, fino a sparire in situazioni estreme. Nel Lager non ci sono colpevoli, recita il titolo del fondamentale libro di Varlam Salamov (17).

Il vostro riconoscimento mi rende felice e orgogliosa, e solo un brutto incidente mi impedisce di essere con voi. Vi sono profondamente grata. Da molti anni nel mio lavoro di storica studio e scrivo di lotte nonviolente. Cerco anche di dare un contributo alle iniziative di associazioni come la fondazione Alexander Langer, che fra le altre attività svolge un'opera assidua di sostegno a quanti e quante si dedicano a costruire ponti al posto dei muri. E quando i muri resistono, li "saltano" simbolicamente e spesso concretamente, con coraggio, con rischi e costi personali, senza violenza.