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(traduzione di “The Drum Major Instinct”, sermone pronunciato nella chiesa battista di Ebenezer, Atlanta, il 4 febbraio 1968)

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 76 del 6 luglio 2007


Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: "Che cosa vorrei che dicessero?". E stamani lascio a voi la parola.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l'umanità.

da "La nonviolenza è in cammino", n. 1299 del 18 maggio 2006

Contro il riduzionismo, la preziosa ricchezza della molteplicità.
Sono d'accordo con chi ha detto che dobbiamo applicare il metodo del consenso per prendere le decisioni, ma questo non per raggiungere unità forzate o sintesi omologatrici: io sono contrarissima a questi termini, che in ambito sociale e politico recano una pretesa per così dire "monoteista", ed impongono una uniformizzazione da cui io resto sempre fuori.
Naturalmente anche un generico pluralismo è un'altra trappola: perché non è assolutamente detto, ad esempio, che un paese dove ci sono otto partiti sia più democratica di uno dove ce ne sono quattro. Il problema sta nel fatto di stabilire nel partito l'unica forma della politica, mentre invece bisogna avere a cuore una molteplicità di forme.
Ad esempio i movimenti non sono, come dice qualcuno, "pre-politica": bensì sono altre forme della politica.
In una società complessa come la nostra non è più possibile avere una sola forma che interpreta la società, ed è necessario che i soggetti si organizzino secondo le proprie caratteristiche; la sfida, a mio parere, è quella di riuscire a gestire la molteplicità lasciandola molteplice, e non cedere al riduzionismo.

Breve un elogio della buona lentezza
Io sento molto forte l'urgenza di fare qualcosa per cambiare le cose per come stanno andando, ma al tempo stesso so che quando c'è un'urgenza bisogna essere lenti.
Ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe distendere in un tempo ristretto un ragionamento calmo. Per esempio, noi donne elette in parlamento, che siamo riunite in un comitato, siamo state già sorpassate dalle decisioni che sono state prese rapidamente da quelli che si sono subito insediati perché sono attaccati al loro potere.
Per non parlare della possibilità di portare in parlamento le rivendicazioni come quelle ad esempio venute fuori in una giornata come quella di oggi. Arriva sempre tutto troppo tardi. E ci ritroviamo a fare i giochi di risulta.

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1318 del 6 giugno 2006)

Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della "guerra di popolo", tipo Irlanda del Nord (Ira) o Paesi Baschi (Eta), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del '69, alle barricate delle imprese d'appalto di Marghera del '70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per Reggio Calabria capoluogo di regione). Così Lotta Continua tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un "servizio d'ordine" numeroso ed aggressivo, tradendo l'ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l'avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell'autunno del 1969.

Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006
Carissima Nella,
sono venuta volentieri alla manifestazione del 2 giugno a Roma e mi pare che sia anche abbastanza riuscita. Però mi preoccupo del carattere sempre più "interno" delle espressioni del movimento e anche mi spiace un pò di essere "convocata" come parlamentare su una piattaforma che non ho minimamente cooperato a costruire.
La mia intenzione era ed è di proporre altre modalità per la festa della repubblica, ragionando sulla sua "ragione sociale", che è quella di "repubblica democratica fondata sul lavoro". Il lavoro viene celebrato il primo maggio e propongo che - se i sindacati sono d'accordo - il 1 maggio sia solenne come il 2 giugno, ma per l'appunto celebrato senza niente di militare, per ricordare la storia nonviolenta del movimento operaio.
Il 2 giugno non può essere "usurpato" dalle Forze armate che hanno già la loro festa il 4 novembre (che peraltro dovrebbe essere piuttosto giorno di lutto: ricordando l'"inutile strage" della prima guerra mondiale); ricevere l'invito alla sfilata militare dal ministro della Difesa, che il 2 giugno è dunque il più potente personaggio dello stato che "convoca" presidente della Repubblica, del Senato, della Camera e del Governo, cioè la prima seconda terza e quarta autorità dello stato, è uno sbrego dell'etichetta e del simbolico che rasenta la rappresentazione di un colpo di stato, e ha un aspetto tanto poco egualitario da essere insopportabile, il trionfo della gerarchia! una cosa da monarchia, non da repubblica...

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006)

Ci sono due desideri collettivi che caratterizzano questi anni: la voglia di impero e la voglia di comunità.
Della prima ci parla l'inizio veramente folgorante del libro di Fabio Mini (La guerra dopo la guerra). La voglia di impero, o si potrebbe dire la smania di impero, è il fenomeno che caratterizza quest'avvio del terzo millennio. Sembra quasi che l'esperimento della democrazia popolare dopo meno di un secolo stia scivolando all'indietro verso un nuovo sistema imperiale.
Almeno parallela cresce un'altra voglia, quasi una smania, di comunità, la nostalgia di una comunità che non abbiamo in verità mai conosciuto. Scrive Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità,): La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta...
La voglia di sentirsi in quella comunione profonda diventa ricerca di un legame collettivo, potremmo quasi dire un legame "purché sia", anche inventato. Il che sarebbe in sé abbastanza ridicolo se non avesse elementi preoccupanti, che emergono in luoghi non poi così lontani da noi, con esiti cruenti. È la ricerca di un'appartenenza che ci sorregga nella distinzione da chi è diverso da noi perché sta oltre un certo confine, definito per stile di vita, gruppo etnico o religioso, o semplicemente una distinzione funzionale a rivendicare il nostro privilegio.
La smania di impero e di comunità sono entrambi modi di rifiutare la politica, la democrazia, la ricerca faticosa della costruzione di una convivenza, che non è regalata.

Cari pacifisti, vi spiego perché ho approvato quell’accordo Lidia Menapace

Oggi, cari amici pacifisti, devo narrarvi cose gravi e difficili e non per scarico di coscienza o per trovare giustificazioni o condivisioni da parte vostra, dato che so che la responsabilità di quello che decido è mia e intera la tengo.
Cominciano le prime decisioni del governo e la situazione non è allegra, almeno in Senato, dove -come è noto- la maggioranza è risicatissima e le imboscate possono sempre succedere.

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Nella Ginatempo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) è una prestigiosa intellettuale impegnata nei movimenti delle donne, contro la guerra, per la globalizzazione dei diritti; è docente di sociologia urbana e rurale all'università di Messina; ha tenuto per alcuni anni il corso di sociologia del lavoro, svolgendo ricerche sul tema del lavoro femminile; attualmente svolge ricerche nel campo della sociologia dell'ambiente e del territorio. Tra le sue pubblicazioni: La casa in Italia, 1975; La città del Sud, 1976; Marginalità e riproduzione sociale, 1983; Donne al confine, 1996; Luoghi e non luoghi nell'area dello Stretto, 1999; Un mondo di pace è possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]