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Carissimi Ebrei della Diaspora,

vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

“Mentre la Repubblica Sudafricana ha ufficialmente accusato Israele di genocidio, la Corte Internazionale di Giustizia ha ufficialmente riconosciuto la fondatezza della mozione, e che Israele deve interrompere le uccisioni, e mentre diverse Nazioni hanno già espresso comunicazioni ufficiali a sostegno di questa causa, c’è ANCORA bisogno di ciò di cui abbiamo avuto bisogno per mesi: di un maggior numero di Nazioni che formalizzino il loro sostegno a tale accusa e che la indirizzino alla Corte di Giustizia Internazionale. È per tale motivo che vi chiediamo di inoltrare ulteriormente la email con la quale avete ricevuto questo messaggio.

In questo articolo si riporta, tradotto in italiano, un discorso del prof. Gad Saad1, docente universitario e ricercatore in Psicologia Evoluzionistica, pubblicato sulla sua pagina Facebook personale il giorno 1° Ottobre 2024. A seguire, si riporta una serie di miei commenti, sempre tradotti in italiano, che ho voluto esprimere nella primaria intenzione del promuovere una visione ad ampio spettro sui molteplici aspetti di verità che caratterizzano il conflitto Israelo-Palestinese attualmente in corso, un passo che ritengo fondamentale se si vogliono perseguire atteggiamenti distensivi e di conciliazione delle parti coinvolte. Questi miei commenti sono stati scritti in due parti successive la prima i 2 Ottobre e la seconda il 4 Ottobre. Al giorno del 6 Ottobre non avevo ancora visto alcuna risposta pubblicata ai miei commenti, sempre nella bacheca della pagina Facebook del Professore, ma non posso escludere che dopo la pubblicazione di questo articolo ne possano essere succeduti. Per questo riporto per gli interessati il link alla pagina Facebook del professore per prendere visione del post e successivi commenti in versione originale Inglese: https://www.facebook.com/Dr.Gad.Saad

Intervista allo storico israeliano Ilan Pappé sull’evoluzione del progetto coloniale israeliano: «La destra messianica non può sopravvivere senza reclutare l’intera società ebraica. Gli ebrei liberali si trasferiscono all’estero, quelli fuori protestano»

«È già accaduto in Medio Oriente: ebrei, cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, è nel dna della regione. Lo dice la storia: sono stati molto più lunghi i periodi di coesistenza che quelli di conflitto». Lo storico israeliano Ilan Pappé, autore di ricerche e di libri che hanno stravolto la narrazione intorno alla Nakba palestinese e alla fondazione dello Stato di Israele, ne è ancora certo: uno stato unico democratico non è un’utopia. Nemmeno dopo un anno di brutalità senza precedenti. Lo incontriamo a Roma, dove presenta il suo nuovo libro, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, edito da Fazi (144 pagine, 15 euro).

«La storia conosce molti periodi di tempi bui in cui lo spazio pubblico è stato oscurato e il mondo è diventato così esposto al dubbio che le persone hanno cessato di chiedere alla politica niente altro se non che presti la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà personale».

Sono parole di Hannah Arendt, scritte nel settembre del 1959, in occasione del conferimento del premio Lessing, ma rimangono attuali ancora oggi.

Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Golan: quella di Israele, a un anno dall’attentato di Hamas, è diventata una guerra totale che infiamma l’intero Medioriente. Le conseguenze di medio e lungo termine sulla regione e sul mondo intero potrebbero essere non meno gravi di quanto lo siano gli esiti immediati di una guerra che Tel Aviv conduce non solo impiegando risorse militari senza pari, ma anche facendosi beffe del diritto internazionale, mettendo in atto pratiche che se attuate dai suoi nemici sarebbero bollate come atti gravi di terrorismo, calpestando diritti umani.

La guerra si allarga di fronte in fronte: decine di migliaia i palestinesi uccisi, decine i morti di Israele, e ora centinaia in Libano. Nessuno sa dove si fermerà: diversamente da Gaza, i confini libanesi sono aperti, e per Israele non c’è linea rossa.

Un paese cronicamente e profondamente diviso come il Libano si è trovato unito nella stessa paura: il timore che esploda il telefono o il televisore, il ronzio onnipresente dei droni, i boati dei jet israeliani.