Dal male può venire il bene? No, non è la fine della Palestina (Ali Rashid)
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Da Il Manifesto del 20 giugno 2007
Dal male può venire il bene? Questo è il problema. La Palestina è la metafora del mondo. Lì si convogliano tutti i problemi del nostro tempo. La testimonianza viva di come il decadimento si impossessi anche dell'anima quando si degrada la politica. La Palestina è un monito, un invito e il resto non dipende solo dai palestinesi, invitati negli ultimi anni solo a morire in silenzio. Dove terra, aria, acqua, mente, gioia, libertà e dolore, piante e case, storia millenaria diventano il ritmo di ciò che ti sfugge, senza senso, appena al di là delle macerie.
Lì, dove fino a ieri sopravvivevi coltivando una speranza che non arriva, all'improvviso trovi un luogo a te proibito, recintato. Si alza un filo spinato, nasce una colonia ebraica, si insedia un futuro che ti esclude, e per sempre, un posto di blocco che ti spezza anima e psiche, un muro che sbarra ogni orizzonte. Di nuovo riparti con un fardello, di nuovo ripartono i recinti, in una mattanza senza fine, da sessant'anni. E' un annientamento diluito nel tempo. Mezzo secolo d'impegno politico aspro ha permesso ai palestinesi di sfuggire a questa trappola disumana e mortale. Ha permesso loro di crescere, di acquisire grandi consensi, di edificare, almeno virtualmente, una patria che gode di riconoscimenti ancora più ampi di quelli di cui gode Israele. I palestinesi hanno svolto un ruolo importante in campo politico, scientifico, letterario, su scala regionale e internazionale. Lo hanno fatto fino a che hanno coltivato un progetto politico e di civiltà alternativo a quello che ha istituito e tuttora incarna Israele per il suo popolo e per la regione. Israele ha anticipato quel che sarebbe stato il mondo contemporaneo, nella forma e nel metodo: il disprezzo del diritto e della legalità internazionali, la guerra permanente e preventiva, l'uso dell'informazione come strumento di guerra e di deviazione, il rifiuto dell'altro, della storia, della cultura e della religione dell'altro, al quale non si offre alcuna via d'uscita se non la totale sottomissione.
Dal male può venire il bene? Questo è il problema. La Palestina è la metafora del mondo. Lì si convogliano tutti i problemi del nostro tempo. La testimonianza viva di come il decadimento si impossessi anche dell'anima quando si degrada la politica. La Palestina è un monito, un invito e il resto non dipende solo dai palestinesi, invitati negli ultimi anni solo a morire in silenzio. Dove terra, aria, acqua, mente, gioia, libertà e dolore, piante e case, storia millenaria diventano il ritmo di ciò che ti sfugge, senza senso, appena al di là delle macerie.
Lì, dove fino a ieri sopravvivevi coltivando una speranza che non arriva, all'improvviso trovi un luogo a te proibito, recintato. Si alza un filo spinato, nasce una colonia ebraica, si insedia un futuro che ti esclude, e per sempre, un posto di blocco che ti spezza anima e psiche, un muro che sbarra ogni orizzonte. Di nuovo riparti con un fardello, di nuovo ripartono i recinti, in una mattanza senza fine, da sessant'anni. E' un annientamento diluito nel tempo. Mezzo secolo d'impegno politico aspro ha permesso ai palestinesi di sfuggire a questa trappola disumana e mortale. Ha permesso loro di crescere, di acquisire grandi consensi, di edificare, almeno virtualmente, una patria che gode di riconoscimenti ancora più ampi di quelli di cui gode Israele. I palestinesi hanno svolto un ruolo importante in campo politico, scientifico, letterario, su scala regionale e internazionale. Lo hanno fatto fino a che hanno coltivato un progetto politico e di civiltà alternativo a quello che ha istituito e tuttora incarna Israele per il suo popolo e per la regione. Israele ha anticipato quel che sarebbe stato il mondo contemporaneo, nella forma e nel metodo: il disprezzo del diritto e della legalità internazionali, la guerra permanente e preventiva, l'uso dell'informazione come strumento di guerra e di deviazione, il rifiuto dell'altro, della storia, della cultura e della religione dell'altro, al quale non si offre alcuna via d'uscita se non la totale sottomissione.
Donne a Gaza (Brenda Gazzar)
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Articolo di Brenda Gazzar, giornalista indipendente, vive a Gerusalemme ed è corrispondente per "We News", tradotto da Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Pubblicato sul m. 131 di Notizie minime della nonviolenza in cammino, del 25 giugno 2007
Gerusalemme.
In una situazione in cui crescono la violenza, l'inosservanza delle leggi, la radicalizzazione politica ed il deterioramento generale dei diritti umani, le attiviste per i diritti delle donne nella striscia di Gaza si stanno attrezzando per l'escalation delle aggressioni nei loro confronti.
Lama Hourani, attivista per i diritti civili ed i diritti delle donne, non velata, ha dichiarato la scorsa settimana che non uscirà di casa sino a che non vedrà cosa accadrà sulle strade ora che le forze armate di Hamas hanno preso il controllo della striscia di Gaza e del suo milione e mezzo di abitanti. Poiché membri di Hamas hanno tentato di forzare con la violenza le donne ad usare il velo, durante la prima Intifada iniziata nel 1987, Hourani sta aspettando di vedere se tenteranno la stessa cosa oggi: "Il punto critico è capire quali sono le regole di Hamas. Non sappiamo più quali siano le leggi, qui, non solo come donne ma come palestinesi".
Hourani aggiunge che le violazioni dei diritti umani delle donne, collegate ad una serie di fattori politici, economici e sociali, sono aumentate da quando l'organizzazione islamista palestinese ha vinto le elezioni nel marzo 2006. Colpi di arma da fuoco risuonano alle sue spalle mentre mi parla al telefono: "Le donne non velate sono state assalite per strada come mai era accaduto in precedenza".
Pubblicato sul m. 131 di Notizie minime della nonviolenza in cammino, del 25 giugno 2007
Gerusalemme.
In una situazione in cui crescono la violenza, l'inosservanza delle leggi, la radicalizzazione politica ed il deterioramento generale dei diritti umani, le attiviste per i diritti delle donne nella striscia di Gaza si stanno attrezzando per l'escalation delle aggressioni nei loro confronti.
Lama Hourani, attivista per i diritti civili ed i diritti delle donne, non velata, ha dichiarato la scorsa settimana che non uscirà di casa sino a che non vedrà cosa accadrà sulle strade ora che le forze armate di Hamas hanno preso il controllo della striscia di Gaza e del suo milione e mezzo di abitanti. Poiché membri di Hamas hanno tentato di forzare con la violenza le donne ad usare il velo, durante la prima Intifada iniziata nel 1987, Hourani sta aspettando di vedere se tenteranno la stessa cosa oggi: "Il punto critico è capire quali sono le regole di Hamas. Non sappiamo più quali siano le leggi, qui, non solo come donne ma come palestinesi".
Hourani aggiunge che le violazioni dei diritti umani delle donne, collegate ad una serie di fattori politici, economici e sociali, sono aumentate da quando l'organizzazione islamista palestinese ha vinto le elezioni nel marzo 2006. Colpi di arma da fuoco risuonano alle sue spalle mentre mi parla al telefono: "Le donne non velate sono state assalite per strada come mai era accaduto in precedenza".
Libano. La condanna infinita (Imad El Rayes)
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Pubblichiamo volentieri il pirmo di alcuni contirbuti sul dramma che sta vivendo la sua terra, scritti dall'amico libanese Imad... ovviamente saremmo felici di ospitare anche le riflessioni di altre persone...
Illusione, è stata la ricostruzione.
Illusione è la pace.
E' la storia che si ripete.
Il dramma libanese ormai fa parte integrante nell'antropologia sociale e politico nel paese dei cedri.
A livello politico è un enigma, basta sapere che il Libano confina a Sud con Israele e a Nord ed Est con la Siria, un punto strategico per il medio oriente.
Un campo da calcio con giocatori ignoti ed invisibili...
Chiamo mia madre in Libano quasi tutti i giorni e spontaneamente racconta - oggi ho comprato un piccola cisterna d'acqua, costa 50 dollari, ma non è potabile ... - poi si interrompe la linea
Sarà andata via l'elettricità, penso.
Per loro tutto questo è la normalità; così sono cresciuto anch'io.
Illusione, è stata la ricostruzione.
Illusione è la pace.
E' la storia che si ripete.
Il dramma libanese ormai fa parte integrante nell'antropologia sociale e politico nel paese dei cedri.
A livello politico è un enigma, basta sapere che il Libano confina a Sud con Israele e a Nord ed Est con la Siria, un punto strategico per il medio oriente.
Un campo da calcio con giocatori ignoti ed invisibili...
Chiamo mia madre in Libano quasi tutti i giorni e spontaneamente racconta - oggi ho comprato un piccola cisterna d'acqua, costa 50 dollari, ma non è potabile ... - poi si interrompe la linea
Sarà andata via l'elettricità, penso.
Per loro tutto questo è la normalità; così sono cresciuto anch'io.
Libano: condanna infinita (parte 2) (Imad El Rayes)
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Continuiamo la pubblicazione della testimonianza dell'amico Imad El Rayes sul Libano
Mia madre, donna straordinaria e forte, ci ha cresciuto durante la guerra civile, da sola.
Avevo dodici anni e tante difficoltà.
Chiamo in Libano lunedì 25 giugno 2007 e immediatamente mia madre mi dice meno male che hai chiamato, ho delle nuove notizie. Proprio ieri è stato celebrato il matrimonio di tuo cugino, la sposa era bellissima, è stata una bella festa, lauguro anche a te .
Poi il tono di voce cambia che hai - dico io purtroppo prosegue mia madre è morto Walid (un tenente dellesercito libanese, parente nostro) durante le battaglie di Naher Bared, il campo profughi, dove è nata, o meglio, dove si sono infiltrati i sostenitori di Fateh al islam. Tanti morti in nome di Dio -.
Continua mia madre mi dispiace per Walid trentadue anni, difendeva il Libano, un nazionalista convinto. Ma questi di Fateh al islam non si sa da dove arrivano e a quale gruppo appartengano. Sono ben organizzati e ben armati, chissà da quanti anni si stanno preparando. Perché non vanno via tutti, e ci lasciano il Libano tranquillo? -.
Mia madre, donna straordinaria e forte, ci ha cresciuto durante la guerra civile, da sola.
Avevo dodici anni e tante difficoltà.
Chiamo in Libano lunedì 25 giugno 2007 e immediatamente mia madre mi dice meno male che hai chiamato, ho delle nuove notizie. Proprio ieri è stato celebrato il matrimonio di tuo cugino, la sposa era bellissima, è stata una bella festa, lauguro anche a te .
Poi il tono di voce cambia che hai - dico io purtroppo prosegue mia madre è morto Walid (un tenente dellesercito libanese, parente nostro) durante le battaglie di Naher Bared, il campo profughi, dove è nata, o meglio, dove si sono infiltrati i sostenitori di Fateh al islam. Tanti morti in nome di Dio -.
Continua mia madre mi dispiace per Walid trentadue anni, difendeva il Libano, un nazionalista convinto. Ma questi di Fateh al islam non si sa da dove arrivano e a quale gruppo appartengano. Sono ben organizzati e ben armati, chissà da quanti anni si stanno preparando. Perché non vanno via tutti, e ci lasciano il Libano tranquillo? -.
Un popolo assediato alla ricerca di un futuro (Giuliana Sgrena)
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Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006
La dignità di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei palestinesi è quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti esterni.
"Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo così ci potremo sentire veramente liberi", sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione è condivisa da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non è semplice. "Non ci sarà uno sviluppo in Palestina finché ci sarà l'occupazione", sostiene Suad Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. "Con tutta la produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la spesa trovo solo prodotti israeliani e non è facile boicottarli e sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere esportati perché devono passare attraverso Israele, così come le importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi", conclude Suad Amiry. Del resto, è l'israeliano Benvenisti a sostenere che "Israele ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare le terre", conclude Suad.
La dignità di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei palestinesi è quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti esterni.
"Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo così ci potremo sentire veramente liberi", sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione è condivisa da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non è semplice. "Non ci sarà uno sviluppo in Palestina finché ci sarà l'occupazione", sostiene Suad Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. "Con tutta la produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la spesa trovo solo prodotti israeliani e non è facile boicottarli e sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere esportati perché devono passare attraverso Israele, così come le importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi", conclude Suad Amiry. Del resto, è l'israeliano Benvenisti a sostenere che "Israele ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare le terre", conclude Suad.
Israeliani e Palestinesi propongono la scelta della nonviolenza (Giuliana Sgrena
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[Pubblicato sul n. 1324 dell11 giugno 2006 della nonviolenza in cammino, tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 4 giugno 2006]
Abbiamo incontrato Zohar Shapira sul lungomare di Tel Aviv durante una pausa del suo lavoro di insegnante. 36 anni, sposato con una bambina di poco più di un anno, che deve andare a recuperare all'asilo appena finita l'intervista, è uno dei fondatori - israeliani - del gruppo "Combattenti per la pace". La composizione del gruppo - 120 refusnik israeliani e 120 ex-prigionieri politici palestinesi, di cui 24 donne - costituisce senza dubbio una novità sullo sfondo del sempre più bloccato conflitto israelo-palestinese. L'organizzazione, che oltre al nucleo centrale - volutamente limitato - gode di molti sostenitori sia israeliani che palestinesi, è nata l'anno scorso dopo anni di incubazione e riflessione ma è apparsa ufficialmente sulla scena politica solo da qualche mese.
Zohar Shapira, per quindici anni nell'esercito, comandante di una unità d'elite incaricata delle missioni speciali (le più sporche) nei territori palestinesi, come è arrivato alla decisione di lasciare l'esercito e di rifiutarsi di tornare in servizio nei territori occupati? "Dopo l'inizio della seconda intifada - racconta - nel 2002, ero impegnato nell'operazione Shield of defence e dopo l'attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l'odio".
Abbiamo incontrato Zohar Shapira sul lungomare di Tel Aviv durante una pausa del suo lavoro di insegnante. 36 anni, sposato con una bambina di poco più di un anno, che deve andare a recuperare all'asilo appena finita l'intervista, è uno dei fondatori - israeliani - del gruppo "Combattenti per la pace". La composizione del gruppo - 120 refusnik israeliani e 120 ex-prigionieri politici palestinesi, di cui 24 donne - costituisce senza dubbio una novità sullo sfondo del sempre più bloccato conflitto israelo-palestinese. L'organizzazione, che oltre al nucleo centrale - volutamente limitato - gode di molti sostenitori sia israeliani che palestinesi, è nata l'anno scorso dopo anni di incubazione e riflessione ma è apparsa ufficialmente sulla scena politica solo da qualche mese.
Zohar Shapira, per quindici anni nell'esercito, comandante di una unità d'elite incaricata delle missioni speciali (le più sporche) nei territori palestinesi, come è arrivato alla decisione di lasciare l'esercito e di rifiutarsi di tornare in servizio nei territori occupati? "Dopo l'inizio della seconda intifada - racconta - nel 2002, ero impegnato nell'operazione Shield of defence e dopo l'attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l'odio".
Medio Oriente, una proposta nonviolenta (Michael Lerner, rabbino)
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(Tratto da La nonviolenza è in cammino, n. 1362 del 19 luglio 2006)
La gente in Medio Oriente sta soffrendo di nuovo mentre militaristi di tutti i fronti, e giornalisti festanti, lanciano missili, bombe, e infinite parole di autogiustificazione per l'ennesimo inutile round di violenza fra Israele ed i suoi vicini. Per coloro fra noi ai quali importa molto della sofferenza umana, questo ultimo episodio di irrazionalità evoca lacrime di tristezza, incredulità per la mancanza di empatia da ogni lato, rabbia per quanto poco sembra si sia appreso dal passato, e momenti di disperazione mentre vediamo di nuovo gli ideali religiosi e democratici subordinati al cinico "realismo" militarista.
I sostenitori di ambo le parti, contenti di ignorare l'umanità dell'Altro, si affrettano ad assicurare ai loro collegi elettorali che la colpa è sempre del nemico. Tutti questi sforzi non hanno senso. Siamo in presenza di un conflitto che si è protratto per oltre un secolo. Ha poca importanza chi abbia accostato l'ultimo cerino alla pietra focaia. Quello che è veramente importante è come rimediare alla situazione. Il gioco del biasimo serve solo a spostare l'attenzione dall'argomento centrale.
Nel gioco del biasimo ce n'è per tutti. Dipende solo da dove fai cominciare la storia. Contando sulla generale mancanza di memoria storica, i partigiani dell'uno o dell'altro fronte scelgono di dar inizio alla narrazione dal luogo in cui essi sono "le vittime che hanno ragione" e gli altri "i malvagi aggressori".
La gente in Medio Oriente sta soffrendo di nuovo mentre militaristi di tutti i fronti, e giornalisti festanti, lanciano missili, bombe, e infinite parole di autogiustificazione per l'ennesimo inutile round di violenza fra Israele ed i suoi vicini. Per coloro fra noi ai quali importa molto della sofferenza umana, questo ultimo episodio di irrazionalità evoca lacrime di tristezza, incredulità per la mancanza di empatia da ogni lato, rabbia per quanto poco sembra si sia appreso dal passato, e momenti di disperazione mentre vediamo di nuovo gli ideali religiosi e democratici subordinati al cinico "realismo" militarista.
I sostenitori di ambo le parti, contenti di ignorare l'umanità dell'Altro, si affrettano ad assicurare ai loro collegi elettorali che la colpa è sempre del nemico. Tutti questi sforzi non hanno senso. Siamo in presenza di un conflitto che si è protratto per oltre un secolo. Ha poca importanza chi abbia accostato l'ultimo cerino alla pietra focaia. Quello che è veramente importante è come rimediare alla situazione. Il gioco del biasimo serve solo a spostare l'attenzione dall'argomento centrale.
Nel gioco del biasimo ce n'è per tutti. Dipende solo da dove fai cominciare la storia. Contando sulla generale mancanza di memoria storica, i partigiani dell'uno o dell'altro fronte scelgono di dar inizio alla narrazione dal luogo in cui essi sono "le vittime che hanno ragione" e gli altri "i malvagi aggressori".
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